Quello che gli scienziati cinesi avevano previsto due mesi fa si è puntualmente verificato: il Monte Mantap, a Punggye-ri, sotto il quale i nordcoreani hanno condotto l’ultimo test nucleare, facendo esplodere un potentissimo ordigno all’idrogeno, ha cominciato a collassare, uccidendo oltre 200 persone (tra militari e civili) che stavano scavando una nuova galleria.
Grande evidenza al disastro è stata anche data dal South China Morning Post, il quotidiano che per primo diffuse i timori (riportati allora con grande evidenza dal nostro giornale) di possibili crolli nel sito nucleare con susseguenti fughe radioattive. All’inizio di settembre l’allarme venne lanciato dal geofisico Wen Lianxking, della University of Science and Technology di Hefei, nella provincia di Anhui. In pratica, l’imponente massiccio sotto cui Kim aveva svolto i suoi ultimi test nucleari – disse l’eminente studioso – sta crollando. Secondo Stephen Chen, analista del giornale cinese, il team di ricercatori guidati da Wen si era detto preoccupato che ciò potesse avvenire, dopo l’analisi dei dati, ottenuti grazie alla minuziosa catena di monitoraggio antisismico installata dal governo di Pechino. D’altro canto, anche i satelliti hanno confermato, con una millimetrica scansione del sito, che il Monte Montap sta implodendo dopo il sesto test nucleare della Corea del Nord, che ha provocato prima un terremoto di 6,3 gradi Richter e poi un consistente sciame sismico.
Il fatto che la notizia del crollo sia arrivata prima da Tokyo e poi da Seul, secondo gli analisti, fa pensare che siano stati i servizi giapponesi quelli che hanno rotto il muro di omertà subito eretto dai nordcoreani. Forse non è un caso, inoltre, che “l’infortunio sul lavoro” di Kim sia stato reso noto proprio adesso, alla vigilia del viaggio di Donald Trump in Estremo Oriente. I giapponesi chiedono agli americani un impegno concreto a risolvere la crisi. Come? Facendo pressioni (commerciali) più decise sulla Cina, affinché sbucci con le sue mani la patata bollente.
Tornando ai problemi di “radioattività indiretta” che potrebbero sorgere a Punggye-ri, va ricordato che le conclusioni di Wen hanno ricevuto sostegno dall’ex direttore della China Nuclear Society Wang Naiyan. Secondo lo scienziato a Punggye-ri si corre il rischio di assistere a un disastro ambientale di proporzioni bibliche. Se il monte dovesse crollare «resterebbe un buco enorme da cui le radiazioni scapperebbero in tutte le direzioni, compresa la Cina». In gergo nucleare il fenomeno si chiama “taking the roof of”, cioè tirare giù il tetto. Beh, diciamo, allora, che le prime tegole sono già cadute rovinosamente.
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