Il respiro di un Paese. Lo senti nell’aria, mentre stai camminando per questa e quella strada, sperso nei pensieri – se capita –, ma egualmente lo senti. In modo distinto. Il respiro profondo d’un Paese in buona salute, il respiro pesante d’un Paese imbolsito che finirà alla malora per via, ad esempio, d’un debito pubblico insostenibile, il respiro lento ma regolare d’un Paese convalescente che sta provando a riguadagnarsi il futuro, il respiro accelerato d’un Paese in fibrillazione, che cova sentimenti d’odio nei confronti di uno Stato vissuto da troppo tempo come nemico. Ebbene, il voto “distratto” mal ripagato e il voto succube di logiche clientelari – prima o poi – partoriscono rivolte: in mancanza di riscontri e favori anche il cittadino “corruttibile” si trasforma, nello stomaco e presto nell’anima, in ribelle. E le truppe di scontenti s’accrescono a dismisura. È la logica della pietra lanciata contro il sistema, è – in nome d’ogni possibile contro – la possibilità, persino, di confutare l’inconfutabile, di propagandare l’impossibile, di fare proseliti contro ogni inclemente evidenza, di disconoscere il buon lavoro fatto da altri (eppure basterebbe poco per narrarne, senza astio, errori e inadempienze).
Sì, l’odio è il motore di tutto. Ma vogliamo ritenerlo soltanto un mezzo linguistico per lo straordinario esperimento fatto in un laboratorio al chiuso da Casaleggio&Grillo e per l’efficace percorso all’aperto ideato da Matteo Salvini per rilanciare la Lega. Le barricate sono servite ad attirare consensi e ora – lo speriamo davvero – saranno certamente abbandonate: è nelle cose una svolta (prova ne sia la decretazione d’urgenza con cui Grillo ha sancito la fine dell’era del “vaffa”). Sempre che i vincitori delle elezioni, fermo restando che una maggioranza “naturale” non c’è, mostrino comunque d’essere davvero disponibili a un’esperienza di governo. E stare al timone, posizione scomoda per certi versi come poche altre, obbliga a fare i conti con il possibile e l’impossibile, con libri di bilancio e con l’Europa. A meno di non voler raggiungere i britannici, già pentiti, in una valle che ci appare, già adesso, lacrimosa.
Il Paese non è (lasciamo stare i numeri) spaccato in tre. Esprime, in realtà, un bipolarismo: chi potrebbe negare – a proposito di populismo – che esistano forti elementi d’affinità, etimologici perfino, tra M5S, Lega e Fratelli d’Italia? Sull’altra sponda metteremmo la gran parte delle altre forze politiche, non coese tra loro – tutt’altro – perché sparse tra quel che resta di sinistra e destra, sempre più involucri vuoti, ma unite da un filo nascosto, che è quello di un realismo moderato, con diverse posture certo, ma – almeno nei programmi – legato all’Europa, al rispetto tout court della stabilità. Forse quest’ultima proposta, e alludiamo ai governi a guida Pd, risulta – al di là degli obiettivi risultati ottenuti – poco seducente, specie mentre c’è la metà più uno degli italiani che ancora tira il carretto e se ne frega che i dati sulla ripresa economica, a sentire l’Istat e Bankitalia, facciano ben sperare.
Certe stagioni, e pensiamo a Matteo Renzi, passano. Tre anni fa il più forte, ieri le dimissioni da segretario Pd. Una pagina nerissima, figlia dello sciagurato incompreso – è nostra opinione – referendum costituzionale. C’è stato anche (e soprattutto?) un grave difetto di comunicazione, da parte del Pd. E esagerata autoreferenzialità. Paolo Gentiloni, “inosservato” (l’uomo, pacato, non alimenta animosità), ha fatto buonissime cose rimaste invisibili e ininfluenti. La sentenza di condanna, per l’esperienza democrat, era già scritta. Lo sentivamo tutti dal respiro corto.
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