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Siria, i russi accusano Trump: sta preparando un attacco

Siria, i russi accusano Trump: sta preparando un attacco

Quasi 500 mila morti e 12 milioni di persone che hanno abbandonato le loro case. Di cui almeno 5 milioni costrette a varcare il confine. Questo il bilancio terrificante (e provvisorio) della guerra in Siria. Un conflitto che dovremmo mettere sul conto di molte coscienze sporche, a cominciare da quelle di diverse diplomazie occidentali. Ora, però, pare che nuovi nuvoloni neri si addensino su quelle martoriate regioni. I russi hanno fatto sapere che gli americani «su ordine di Trump» si preparano ad attaccare Damasco, per punire Assad che avrebbe usato armi chimiche ad al-Ghouta. Naturalmente Mosca definisce «completamente false» queste accuse. E avverte: reagiremo.

È stato il capo di stato maggiore russo, generale Valery Gerasimov, a mettere in stato di allerta le sue truppe. I servizi di intelligence di Mosca avrebbero avvisato il Cremlino che il dispositivo aeronavale statunitense è stato pesantemente rafforzato. Sarebbero oltre 400 i “cruise” destinati a colpire le forze di Assad e dei suoi alleati iraniani. Non è un caso che il Ministero della Difesa di Putin abbia subito predisposto contromisure elettroniche sofisticate, spedendo in Siria elicotteri specializzati nell’accecare i radar nemici.

Intanto, l’ultimo macabro capitolo del conflitto riguarda due regioni distantissime tra di loro, una nord e una a sud del Paese. Afrin, città curda di un milione di abitanti, a pochi chilometri dal confine turco, è caduta dopo feroci combattimenti e nell’indifferenza generale, nelle mani dell’esercito di Ankara. L’area di al-Ghouta, invece, vicino Damasco, viene occupata dalle forze governative e dai loro alleati, dopo essere stata rasa al suolo dai caccia-bombardieri russi. Per gli analisti non c’è alcun dubbio: i curdi sono stati abbandonati al loro destino, dopo essere stati utilizzati come carne da cannone da americani e russi, per la guerra contro l’Isis.

Lo scambio di “favori” tra Damasco, Ankara, Teheran, Mosca e Washington è sotto gli occhi di tutti. Per molti motivi. Trump non vuole scontentare Erdogan e ad Afrin si è venduto i combattenti curdi senza battere ciglio. Anche Putin ha tirato la coperta dal suo lato. A lui interessava fare piazza pulita dei ribelli nella zona di Damasco. E così è stato. La Turchia si è accordata con i russi e gli iraniani, chiedendo che le sue milizie si ritirassero liberamente. In cambio ha preteso di avere le mani libere su Afrin, col risultato di fare scappare almeno 200mila curdi.

Nessuna notizia dei combattenti “peshmerga” del YPG, che potrebbero essere fuggiti verso le aree controllate dai governativi siriani o starebbero per raggrupparsi, cercando di replicare con una disperata controffensiva. Più facile, invece, che i resti delle milizie curde cerchino di raggiungere Manbij, che potrebbe essere il prossimo obiettivo turco. Lo sanno anche gli americani, che stanno cercando di arginare la straripante offensiva di Erdogan, molto ironicamente denominata “Ramoscello d’ulivo”. In effetti, non si capisce quale sia lo scenario delineato dagli esperti del Pentagono. La cosa più evidente è che nello Studio Ovale stanno mischiando maldestramente tattica e strategia. Certo, in cotanto polverone c’entrerà anche la disinvoltura con cui Trump cambia e scambia advisors, generali e superesperti. L’ultimo è il “falco” John Bolton, chiamato a prendere il posto, come Consigliere per la Sicurezza Nazionale, di McMaster. Un altro salto della quaglia che confonde le acque, perché la visione americana della crisi cambierà per l’ennesima volta. Mentre Trump era impegnato a riscrivere la lista dei collaboratori, Erdogan si è comprato almeno 30 milizie sunnite, assoldando una forza capace di risolvergli il problema curdo in Siria. E per darvi conto della confusione mentale in cui versa la politica estera Usa, diciamo che se da un lato la Casa Bianca non ha mosso un dito per salvare Afrin o Ghouta, dall’altro il generale Kenneth McKenzie, direttore del Joint Operation Staff dell’Us Army, ha ordinato un ridispiegamento delle forze intorno a Manbij e nelle altre aree curde. Forse un tentativo di dissuadere i turchi da un’operazione che sa tanto di piazza pulita. O forse è una mossa patetica per salvare la faccia di Trump. Che già Erdogan si è messa abbondantemente sotto i piedi.

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