H.G. Wells e la sua macchina del tem-po ci riportano alla notte, fonda, tra il 4 e 5 marzo scorsi: vediamo il padano ravveduto brindare con bollicine Franciacorta, il napoletano stellato inumidirsi le labbra – prima d’abbandonarsi al sonno del vincitore – in un Aglianico rosé. Entrambi, sorridenti, pensano la stessa cosa, ché l’esito del voto è chiaro. Io, Salvini, sto avanti a Berlusconi e sono il leader della coalizione che ha vinto le elezioni; io, Di Maio, sono il «candidato premier» del partito che ha raccolto più consensi. Nessuno dei due ha, da solo, i numeri per governare; quindi «governeremo insieme».
Però non può accadere senza prima aver messo in piedi una sceneggiatura degna, credibile: dev’esserci logorio, tormento, travaglio.
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Non stiamo per errore riproponendo l’editoriale apparso sulla “Gazzetta del Sud” dello scorso 10 aprile, ma è quanto abbiamo scritto esattamente un mese fa. Ebbene, con un’espressione destinata a far storia (con la esse piccina), il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, di Forza Italia, ha provato a descrivere ieri il possibile comportamento del suo partito rispetto al nascente governo M5S-Lega: librata nell’aria, sopra gli scranni azzurri del Parlamento, dovrà percepirsi – durante il corso della legislatura – una costante «benevolenza critica». Il sostantivo garantirà che resti ipocritamente in piedi, se pur fortemente incrinata, la coalizione di centrodestra (a proposito, che farà la Meloni?); l’aggettivo salva mezza faccia a Silvio Berlusconi costretto a ingollare il rospo d’un governo Salvini-Di Maio, vissuto per 66 giorni come un vero incubo. Su queste sdrucciolevoli basi il Cavaliere ha dato di fatto il “via libera” all’esecutivo gialloverde ma in Parlamento non voterà la fiducia. Sarebbe troppo.
E Di Maio? Anche per lui, in cambio dell’approdo – desiderato fino allo spasimo – a Palazzo Chigi, c’è un altro rospo da mandar giù dopo quello di dover rinunciare, a quanto sembra, al premierato pieno (s’ipotizza, tutt’al più, una staffetta con Salvini). È una cosa di cui non andar fiero: la clamorosa goffa marcia indietro cui l’ha costretto il leader del Carroccio. «Nessun veto su Berlusconi – ha detto ieri con voce contratta il capo politico dei 5Stelle –, ma la volontà di dialogare con la Lega. Noi vogliamo fare un governo che preveda due forze politiche e non quattro. Punto».
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Caduto, com’era prevedibile, il «veto» pregiudiziale dei Cinquestelle sul «delinquente» e «pregiudicato» Berlusconi, Salvini può andare con Di Maio. Si profila l’ennesimo matrimonio all’italiana, con probabili comodi scaricabarile per ogni insuccesso che verrà. Un matrimonio che viene dopo anni di... malevolenza acritica: un gioco al massacro, di tutti contro alcuni.
Anni archiviati in nome della «benevolenza critica», postura dell’anima di cui abbiamo appreso ieri. Ci è stato spalancato un mondo, a noi e al Cavaliere Onorevole Silvio Berlusconi. Sì, lui, lo «psiconano»: definizione coniata da Beppe Grillo, bravissimo comico però meno elegante di Giovanni Toti.