Nella foto: “L’imbarco dei Mille a Quarto” di Gerolamo Induno, 1860, e una foto di Rosalia Montmasson. In alto, Francesco Crispi e Rosalia nell’ “album di Mille”, e Crispi, molto anziano, in una stampa
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Ahi che dolore, che rovello era. Sapere d'una donna, l'unica donna arruolata tra i Mille, con la camicia rossa e le stesse fatiche e gli stessi rischi degli uomini, una donna indomita e che non si spaventava di nulla (e più dei Borboni o di qualsiasi altro nemico non si spaventava dei suoi tempi bigotti, classisti e maschilisti, che vivevano le donne libere come un affronto e un'anomalia pericolosa), una donna che aveva fatto la Patria non meno degli altri (non meno del marito, quel Francesco Crispi voltagabbana e opportunista che prendiamo fervente mazziniano, repubblicano e rivoluzionario e lasceremo monarchico, reazionario e prefiguratore del fascismo) e poi era finita povera e oscura, ripudiata nel peggiore dei modi. Sapere quel poco che sapevamo di lei, poco e sbagliato, a partire dal nome; Rose Montmasson, moglie di Crispi, e per qualcuno, anzi molti, anzi addirittura lo Stato italiano (proprio quello che lei aveva contribuito a forgiare) moglie immaginaria, senza diritti, senza un vero matrimonio.
Quel poco che sapevamo di lei – che anzitutto non era Rose ma Rosalia – era tutto lì: la camicia rossa dei garibaldini, una crocetta di diamanti, comperata con una colletta fra gli altri novecentonovantanove (la maggior parte dei quali, poi, vittime d'un destino di miseria ed emarginazione), qualche foto sbiadita e qualche ingenerosa stampa d'epoca.
Pochi anni fa, quando tutti abbiamo celebrato il Risorgimento come momento fondativo e Dna irriducibile della Nazione, il nome di Rose era tornato a circolare, tra quelli delle Madri della Patria, categoria in realtà tutta da riscoprire e riscrivere. Già allora s'occupava di Rose, delle sue tracce discordanti, Maria Attanasio, la scrittrice siciliana che oggi per le patrie lettere è l'equivalente d'una Madre della Patria, ma col di più d'una Grande Madre mediterranea e isolana, che dal suo studiolo di Caltagirone fruga il mondo e la Storia, collezionando vicende e personaggi, misurandosi col buio degli oblii o con un altro buio, molto più insidioso e difficilmente riconoscibile, quello apparentemente luminoso delle mitologie che occultano menzogne, delle «storie che tutti conoscono», delle celebrazioni che spesso sono travisamenti e nascondigli di verità. Potremmo dire che Maria Attanasio, che è storica e poetessa (e pubblica sia versi che prose vertiginose, coltivando in un modo che è davvero raro tutte le possibilità della parola), cerca la verità a suo modo, risalendo le correnti della Storia e mettendo a contatto la sua anima sensibile, la sua penna straordinaria, la sua seconda vista con le storie che vi si nascondono, o fluttuano come pesci, o sirene, o relitti da cui ricostruire interi galeoni.
Lo aveva già fatto col mirabile “Il falsario di Caltagirone” (Sellerio, 2007), la storia vera di Paolo Ciulla, pittore e incisore e difensore degli oppressi che, negli anni Venti del secolo scorso, concepì l'opera totale, il vero impiego rivoluzionario della sua arte: le banconote false, delle quali nemmeno una fu spesa da lui, ma tutte destinate a proletari ed emigranti. Dentro quella storia, in filigrana (appunto, quella delle banconote), si leggeva tutta una controstoria della Sicilia, ben fuori dallo stereotipo di regno dormiente e immobile nell'arretratezza, ma semmai ricacciato sempre verso di essa dai poteri più retrivi, dai gattopardi veri e presunti d'ogni epoca.
Anche il ritratto di Rosalia Montmasson, garibaldina e Madre della Patria, donna libera in libero Stato, tracciato ne “La ragazza di Marsiglia” (Sellerio), in uscita domani nelle librerie, compie lo stesso prodigio. Ci restituisce per intero una figura che era stata mortificata, e dietro di lei, in prospettiva, mette ordine tra le mitologie, riconsegna la questione meridionale alle sue origini, svela il pietoso, drammatico destino dei reduci garibaldini (così come di tutti i soldati dello smobilitato esercito meridionale «privati di pane e di rispetto»), oggi celebrati e appiattiti nel mito da sussidiario, nella versione pastorizzata che quel dramma, quell'ingiustizia ha totalmente cancellato.
Solo che tutto questo Maria Attanasio lo fa con l'acribia e la febbre documentaria d'uno storico, ma con gli strumenti della letteratura. Così viviamo il primo incontro tra Rosalìe e Fransuà, la loro straordinaria intesa e il loro sodalizio carnale e ideale (nel quale, però, lei lavorava come lavandaia per mantenere lui che studiava e pensava), l'anticonformismo del loro legame (proprio quello che lui rinnegò, quando architettò una via d'uscita “legale” allo scandalo dell'accusa di bigamia che stava per travolgerlo, subito dopo aver preso in moglie una donna molto più giovane e di buona famiglia, Lina Barbagallo), e assieme tutti i modi in cui Rosalìe aveva fatto fronte agli innumerevoli ostacoli del suo tempo (che per una donna sono sempre il doppio, se non il triplo) per proclamarsi donna libera, per seguire solo i suoi liberi convincimenti e le passioni del suo cuore: Fransuà e la politica, in quest'ordine.
Pedinando Rosalìe, tra luoghi, carte, frammenti, ri-componendo quel periodo acceso ed entusiasta – uno di quei momenti nei quali davvero si credette di poter buttare giù il mondo e rifarlo nuovo – Maria Attanasio ha messo assieme un ritratto affascinante, ha recuperato quella magnifica donna grattandola via dal mito autolesionista della ripudiata e oscura, facendone la vera vincitrice morale, rappacificata col pur fedifrago e meschino Fransuà, traditore prima degli ideali che dell'amore, inserita nel mondo vitale e vivace delle donne che portavano avanti lo spirito rivoluzionario che s'era andato incagliando nello Stato Unitario monarchico, quello di cui Fransuà era diventato uno dei baluardi e difensori.
E c'è una profonda verità, nella sua ricostruzione che è rigorosa eppure in parte fantastica, che è fondata su documenti e testimonianze (e le appendici al testo, dove l'autrice dà minuzioso conto di ciò che è reale e di ciò che s'è concessa per inventare la parte della storia «invalicabile», oscurata e immemore «nei fondali d'un tempo concluso», sono appassionanti quanto il romanzo: la diversamente poesia di Maria Attanasio, che riesce a farci piangere su vecchie lettere e documenti d'archivio, a trasalire davanti ai resoconti delle sue investigazioni, ad emozionarci davanti ai fortuiti incontri tra il Personaggio e l'Autrice, come se si sfiorassero le dita, attraverso i secoli) eppure liberamente respirata tornando sui luoghi di Rosalìe, toccando il volto del busto di gesso che (guarda un po’ le coincidenze, il caos che sembra farsi trama) si trova proprio a Caltagirone, vero omphalos da cui passano tutte le storie, o meglio le storie dirette alle mani della Grande Madre, che le disfa per rifarle più belle ma anche più vere.
Perché, scrive Maria con la sua parola fiammeggiante ma attentamente disciplinata, arsa nel profondo dal fuoco ma limpida, netta eppure oracolare, immaginifica ma davvero, e nel senso più pieno, “politica”, «la scrittura si fa arte, se pur nella finzione – necessaria per ricostruire le inaccessibili crepe del vissuto – è esperienza di verità e parola di libertà». Se esiste uno spirito di ogni Risorgimento, in qualsiasi epoca e anima, il suo statuto non può che essere questo.