Due parole: sarebbero state sufficienti per il curriculum, se mai ne avesse avuto uno, di Philip Roth, il grande, grandissimo scrittore americano scomparso ieri. Due parole: Pastorale americana, il titolo del suo libro del 1997, uno dei capolavori assoluti del XX secolo. “Interprete”, Roth, della propria necessità di combattere ogni giorno con le insidie della scrittura, così mutevole, nemica e complice insieme, e di narrare al contempo un intero universo, raccontato mentre accade e poi, dimentico di sé, diventa altro. Roth, veggente, che osserva le trasformazioni “genetiche” di un popolo, le sue traiettorie in questa e quella – talvolta folle – direzione.
Sì, Trump e quel che ne segue. Si poteva prevedere.
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Sul curriculum del professor Giuseppe Conte, premier incaricato che – beato lui – ha trascorso parecchi anni della sua vita a New York, Parigi, Cambridge, Malta e sulla luna, non ci interessa granché insistere. Quantomeno c’è stato, in queste città e forse persino sulla luna; e, per la stima di cui sembra godere, deve aver imparato almeno qualcosina. Probabilmente cibandosi (anche da solo, e gli fa onore) in qualche biblioteca, in qualche stanza d’università, on the road. Perdoniamolo, quindi, il professor Conte. Ha ammesso d’aver gonfiato pochino pochino il curriculum favoleggiando su fantasmagorici corsi e perfezionamenti conquistati col sudore (in diversi atenei, obiettivamente, di lui non è rimasta traccia). Certo, non molto sofisticata la linea di difesa del futuro avvocato del popolo italiano: «Il mio comportamento? Una leggerezza». E non ha titubato un attimo, mentre attendeva l’incarico dal Quirinale. Confortato dai due demiurghi: Luigi Di Maio e Matteo Salvini, granitici nel difenderlo (ormai, dopo il giro del... mondo in ottanta giorni, frittata fatta e rischi seri che saltasse il banco).
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E andiamo al bigliettino da visita. Di quello dato al Presidente Mattarella sappiamo poco. L’unica cosa chiara è che il governo del M5S e della Lega rispetterà i vincoli europei. E quindi Conte, sul punto, dev’essere stato più che conciliante (altrimenti poteva dire addio alla poltrona). D’altra parte, lo stesso Salvini – dai microfoni del Colle – aveva provato a rassicurare Bruxelles, salvo poi a rispolverare sui social i toni barricaderi, che servono per galvanizzare gli ultrà della curva nord e – ormai – anche quelli della curva sud.
Il discorso di Conte si è quindi fatto “politico”. Il professore guiderà il «governo del cambiamento» rimanendo fedele al “contratto” gialloverde (le coperture finanziarie restano un optional come i cerchi in... lega). Soprattutto, sarà – ripetiamola, è una frase irresistibile – «l’avvocato del popolo italiano». Noi, povera gente impegnata in eterni contenziosi con l’Unione Europea (la stessa che ieri ha promosso i nostri conti del 2017 riconoscendo il buon lavoro fatto), avremo chi ci rappresenta.
Enfatizzazione populista? Giacobinismo? Chissà quali ombreggiature vi avrebbe scorto Philip Roth.