Non teme di alzare la posta, Matteo Salvini. Anzi, forse, ne ha tutto l’interesse. Come quelli che giocano su più tavoli, e la cui prospettiva – quindi – può essere plurale, è in una situazione di vantaggio. Certamente la Lega è il partito che in questo momento teme meno il voto, certamente la leadership di Salvini è solida, certamente il “patto” con la Meloni e Forza Italia è tutt’altro che archiviato. E ricucire, con altre coordinate, sarebbe più che possibile. In tempi brevi, peraltro. E Salvini, con la sua base elettorale che tornerebbe a specchiarsi in lui con ancora più convinzione, verrebbe “riaccolto” dagli alleati del centrodestra meglio che il figliol prodigo, probabilmente ancora da leader della coalizione. Le probabili tensioni di facciata sarebbero facilmente stemperate. Può, Salvini, proprio per questo alzare la posta – la lista dei ministri del Carroccio «è fatta e non si tocca più» – e provare a vedere le carte di tutti. Può, Salvini, proprio per questo, usare il linguaggio con cui ha più confidenza, quello guascone, dai toni alti, quello della sfida, quello di chi opera «per il popolo» e non per sé, il linguaggio più amato dall’elettorato ultrà che sorregge la Lega. Quella rabbia, della gente, è un patrimonio che non va disperso, è la fiammella che dà forza al leader. Ed è uno scambio di forze che sa di primordiale: il capo esalta la truppa, la truppa lo ricambia con fede pressoché cieca. Sicché Salvini non ha bisogno di blandire i Cinquestelle, di dire – come fa Di Maio – che si sta lavorando bene come se si fosse cresciuti assieme fin da ragazzi, né di proclami altisonanti e solenni. Salvini non si sognerebbe mai di pronunciare una frase come «Stiamo scrivendo la Storia» e altre grottesche amenità, il genere comico – per intenderci – cui sono avvezzi i pentastellati, dal professionista Grillo all’apprendista Di Maio. Evita, Salvini, i toni morbidi, al contrario e sempre preferisce quelli della guerra: così funzionano, ne abbiano coscienza o no, i capi populisti. Sentono a pelle che – mentre respirano, parlano, camminano – devono sempre essere accompagnati da una didascalia che fughi ogni dubbio: «Mai saremo establishment, chi spera di poterci ritorcere contro le nostre stesse armi non s’illuda». Il governo nascente, ammesso che nasca, appare più a traino leghista che pentastellato (non ce ne voglia il “nome terzo” incaricato Giuseppe Conte, ieri strapazzato dal “New York Times”). A Di Maio è riuscito, strada facendo, di perdere immagine e peso. Il candidato premier non più premier ostenta sorrisi artificiosi per narrare un miracolo che non c’è, e la scollatura tra il “resoconto” e la realtà è sotto gli occhi di tutti. Non a caso è rispuntato Alessandro Di Battista, che – intuendo il crescente vuoto da colmare – ieri ha affiancato Salvini e la Meloni sul pretestuoso caso Savona. Linea dell’intransigenza e sfida aperta al Quirinale. Di Maio, in ritardo, si è come in altre occasioni accodato. Effetto eco: «O si chiude in 24 ore o lasciamo perdere». Ma la tentazione di Salvini, forse più di quella d’un ritorno alle urne, è far salpare un governo («O parte o non tratto più») e – al primo intoppo (Tav, Ilva, migranti) – farlo cadere. Il “riavvicinamento”, anche se finora soltanto sui princìpi, con la Meloni e il silenzio di Berlusconi rendono legittimo un sospetto: un piano a medio termine, un cambio di maggioranza a un certo punto della corsa senza tornare al voto e quando il gruppo misto in Parlamento si sarà fatto sufficientemente numeroso. Di Maio – forse ci sbagliamo, per carità – non sembra attrezzato per fronteggiare la giocata multipla di Salvini, fatta di rilanci che può permettersi. Si naviga a vista, tra la nebbia, e i viaggi – spesso – prendono forme nuove. A Di Maio servirebbe una bussola. E quella o ce l’hai o non ce l’hai.