Un messaggio fuorviante è passato in questi anni. Due parole: del fare. Che delineano un concetto tanto più subdolo quanto più sembra innocuo e “descrittivo”. Politica del fare, governo del fare: è come se ogni titubanza dell’intelligenza, affidata alle parole, andasse accantonata per cedere il posto a una dirimente operosità portatrice di benessere. Chi chiacchiera non produce: nella vita, questo il distillato di cinica saggezza, conta soltanto “chi fa”. E, se capita, bene accolto pure lo sbaglio, purché accada – appunto – facendo, nel travaglio della prassi, lontano da ideologie.
Ricordate il governo Monti a fine 2011? Erano, gli italiani, ancora – in gran numero – spiriti ingenui, fu facile convincerli che gli zigzag fallimentari dei politici sarebbero stati ben facilmente surrogati dall’efficiente prolificità dei professionisti del fare, i tecnici. A essere defraudati, nel nostro Paese, furono soprattutto i ragazzi: alla maggior parte di loro fu tolta, svenduta per illusione, la coscienza della politica. Che talvolta è colma di dubbi, di buoni oppure opachi sentimenti, di indecise parole. Il sale del mondo.
“Obiettivamente”: a che servono tesi e hegeliana antitesi, a che i discorsi, a che la sintesi politica, la dialettica, se il risultato è solo perturbante caos? “Quando il gioco si fa duro” e, eliso, viene meno lo “spazio” per competizioni di ruolo, basterà chiamare un tecnico e la partita tornerà su binari seri. Sillogismo trasverso: la politica è per definizione menzogna, passatempo per società molli, consuetudine per benestanti annoiati dal saliscendi d’un comunque solido profitto.
Un boomerang. Questo è stato. Con simili premesse, la politica “ritrovata” dopo il pasticcio “tecnico”, che peraltro seguiva ad anni di berlusconiana onnipresenza, non poteva che avere i colori del populismo. Non è, Berlusconi, «il male assoluto». Peggio, forse: ha incarnato “il male” relativo, quello di cui parla Ratzinger. È stato Berlusconi a coniare, nel passato recente del nostro Paese, le prime formule populiste: dal contratto con gli italiani al presidente-operaio. Poi toccò a Letta e Renzi dover tessere l’elogio del fare, infine a Salvini e Di Maio, epigoni del Cavaliere e i più spregiudicati.
Passare dalle parole ai fatti: non si può più sentire, questa frase! Tornare invece dai fatti, troppi inconsulti fatti, alle parole: ecco la strada. Tornare alla politica, allo spazio in cui la parola si cimenta, daccapo, a reinaugurare il mondo, alla luce di ciò che è cambiato, si chiami tecnologia o globalizzazione. Riappropriarsi della ricchezza che è in ogni non fare, là dove il pensiero abita.
I populisti rinnegano il “rimedio tecnico”, ma non sanno superarne la formula. È rimasto in eredità, al nostro sventurato Paese, lo slogan del fare. Con una devastante complicazione: né competenze né aiutini pilotati da Bruxelles. In giro idee fumose e programmi che – sì, stiamo parlando ancora una volta di coperture finanziarie – non poggiano né in cielo né in terra. I tecnici ci hanno rubato non i soldi ma l’anima. Il nostro minor problema è la Germania, che di populismo e aberrazioni farà comunque bene a non parlare più almeno fino al 2045, e possiamo pure fregarcene – con parsimonia – della nostra fata turchina, la Bce guidata (ancora per poco) da Mario Draghi. Il nostro maggior problema è che molti italiani sono andati a cercare la politica nei posti più pazzeschi, tra castelli di carta e fabbriche di chimere a buon prezzo, dove si ciancia di identità nazionali e ancora di dinamismo del fare. Qualche riflessione in più, prima d’ogni scelta, gioverebbe. Ogni trenta tweet un libro: il nostro slogan populista.