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Oltre i sottili confini
dei diritti dell’uomo

Oltre i sottili confini dei diritti dell’uomo

Di fronte al secco rifiuto, da parte del governo italiano, di accogliere nei nostri porti la nave umanitaria Aquarius, battente bandiera di Gibilterra, con a bordo 629 migranti nordafricani, si apre l’ennesima emergenza relativa agli sbarchi, che rischia di sconfinare in una nuova crisi diplomatica Italia-Malta (si pensi alla nota vicenda del mercantile Pinar del 2009). Il governo maltese, a sua volta, si è rifiutato di accogliere i migranti sostenendo che il soccorso non è avvenuto in una zona di mare di sua competenza (bensì nella zona di ricerca e soccorso SAR libica) e inoltre che non ha assunto il coordinamento delle operazioni di salvataggio, cui ha provveduto l’Italia.

Quanto alla prima motivazione, in realtà non esiste – se non sulla carta – una zona SAR libica, non avendo tale Paese soddisfatto i requisiti richiesti dall’Imo (International Maritime Organization) per il riconoscimento dell’area. La nave Aquarius al momento si trova in acque internazionali, a circa 35 miglia nautiche dall’Italia e a circa 27 miglia da Malta (ossia ben oltre le 12 miglia che costituiscono il limite esterno del mare territoriale di ciascuno Stato). Secondo il diritto internazionale del mare, in particolare in base alla Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il salvataggio (SAR, Search and Rescue, 1979) e alla Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (SOlas, 1974), come emendate nel 2004 (rispettivamente, cap. III, par. 3.1.9 e capitolo V, regola 33, par.1.1), di fronte a distress situations, sussiste l’obbligo di sbarcare (al più presto) i naufraghi in un “luogo sicuro” (place of safety), che normalmente – ma non necessariamente – corrisponde a quello più vicino. Tale luogo deve, infatti, essere in grado di garantire sicurezza e accoglienza umanitaria, di soddisfare le primarie necessità e assicurare il trasporto nella destinazione vicina o finale. Ovviamente non può essere considerato luogo sicuro, se non provvisoriamente, la stessa nave soccorritrice. Con lo sbarco in tale porto si considerano concluse le operazioni di salvataggio. Pertanto, l’obbligo di individuare un porto sicuro ha lo scopo di garantire che gli Stati aderenti alle citate Convenzione cooperino tra loro, sollevando il comandante della nave dalla responsabilità di prendersi cura dei sopravvissuti e – al contempo – consentendo alle persone soccorse di approdare in un luogo che garantisca loro condizioni di sicurezza. Ma a questo punto una domanda sorge spontanea: chi stabilisce quale sia il luogo più sicuro per lo sbarco? Le Linee guida dell’Imo sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. Msc.167-78 del 2004) attribuiscono allo Stato che ha assunto il ruolo di autorità Sar, e quindi la responsabilità del coordinamento delle operazioni di soccorso in mare, la competenza ad individuare un place of safety, tenendo conto delle circostanze specifiche e previe opportune verifiche. Nel caso dell’Aquarius, quindi, la competenza spetta alla centrale operativa del Comando generale della Guardia costiera italiana (Mrcc), con base a Roma. Ciò significa che il Paese che coordina i soccorsi non deve essere automaticamente anche sede dello sbarco dei migranti. Quanto ai rapporti Italia-Malta, va però sottolineato che corso della Conferenza Imo di Valencia del 1997, mentre il nostro Paese ha provveduto a delimitare, assieme agli altri Stati che si affacciano sul “mare nostrum”, la propria zona Sar, siglando un apposito accordo, Malta si è rifiutata, rivendicando un’enorme area di ricerca e soccorso, pari a circa 250.000 chilometri quadrati, che in parte si sovrappone alla zona Sar italiana, coprendo addirittura le acque territoriali di Lampedusa e Lampione. 

Seguendo l’esempio di Malta, in linea teorica, anche l’Italia potrebbe decidere di non accogliere altri migranti, negando l’accesso ai porti nazionali: basti ricordare che la Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare (c.d. Unclos), consente l’adozione di misure restrittive, quali il divieto di approdo, per ragioni di sicurezza dello Stato (art. 25). Tali misure, che potrebbero fondarsi sul fatto che la nave con a bordo irregolari viola la normativa nazionale in materia di immigrazione, comportano però complessi problemi, attinenti alla tutela prioritaria dei diritti umani. Primo tra tutti, il divieto di respingimento (non-refoulement) degli aventi diritto alla protezione internazionale verso territori in cui la loro vita o la loro libertà sarebbero minacciate a motivo della razza, della religione, della cittadinanza, della appartenenza a un gruppo sociale o delle opinioni politiche (art. 33 Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951). Qualora i migranti non accolti nei nostri porti, venissero conseguentemente riportati nei luoghi di partenza – notoriamente non sicuri – ben si potrebbe configurare una violazione di tale divieto da parte del nostro Paese. Inoltre, si pone il serio rischio di violare, altresì, l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che proibisce la tortura e i trattamenti disumani o degradanti. Questo timore, lungi dall’essere remoto, appare reale: basti pensare alle numerose pronunce della Corte di Strasburgo (tra tutte il noto caso Hirsi), che di fronte a episodi di refoulement, hanno condannato l’Italia per violazione della Cedu.

*Professore Ordinario di Diritto della navigazione, direttore del Cust / UniMe

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