Taormina
«Passeggiando per le strade di Taormina, passando in mezzo alle persone, ovviamente non capivo cosa dicessero ma il linguaggio del corpo e la gestualità mi hanno dato i brividi. Mi sono sentito improvvisamente a casa». Attesissimo, lo scrittore israeliano Amos Oz – i cui romanzi sono tradotti in 41 lingue - ieri è stato una delle stelle della serata inaugurale dell’ottava edizione del Taobuk – dedicata al tema Rivoluzioni - ritirando il Taormina Awards for Literary Excellence. Stasera, dialogando con Roberta Scorranese, terrà una lectio magistralis - h20, Piazza IX Aprile – sul tema “Evoluzione o rivoluzione?” ma non si sbottona sul romanzo che sta scrivendo: “Non è ancora il momento di svelare il mistero”.
Maestro, qual è il suo rapporto con l’isola?
«Conosco poco questa isola, anni fa sono stato a Lampedusa e per la prima volta visito Taormina. Israele e la Sicilia sono geograficamente lontani ma se ripenso alla storia siciliana, alle lotte, ai conquistatori e alle rivolte finite nel sangue inseguendo la libertà, respiro aria di casa. E sì, la Sicilia è davvero bellissima».
Crede in una pace possibile in Medioriente?
«Ci sono due tipi di pace. La pace della fine del tempo, quando si muore e la pace civile, cui si va incontro quando un matrimonio finisce e la convivenza si rivela impossibile. Credo sia troppo sperare che un futuro Stato Palestinese e Israeliano possano andare d’accordo. Spero possano almeno convivere».
Potremmo pensare a un parallelo sul mondo teatrale per leggere la realtà?
«Potremmo. Del resto, Israele è coinvolta in una tragedia che si dipana da decenni. I drammi di Shakespeare si concludono con il palco costellato di cadaveri inseguendo la giustizia; quelli di Cechov, invece, terminano con rammarico e tristezza ma senza violenza. E mi auguro che possa prevalere questa versione sulla realtà.
Cosa pensa della situazione attuale dei rifugiati?
«Sono nipote e figlio di rifugiati e richiedenti asilo, la questione mi tocca nel profondo. I miei antenati erano in fuga dall’Europa che li odiava e perseguitava brutalmente. Ciò che mi colpisce maggiormente è il fatto che i profughi odierni non hanno alcuna speranza negli occhi. Credo che avremmo dovuto agire tempo addietro, intervenendo nel terzo mondo per cercare di ribaltare il malessere. Forse se avessimo agito, oggi non dovremmo assistere a questo dramma».
Qual è la sua opinione sulle recenti azioni di Trump che ha chiuso il confine con il Messico?
«I genitori non dovrebbero mai essere separati dai figli. È disumano. Accadde ai tempi del nazismo. Per provare a risolvere il dramma dell’immigrazione massiccia e illegale, Trump dovrebbe puntare sulla riconciliazione fra paesi abbienti e poveri, una ridistribuzione del benessere. Ma se i ricchi continueranno a snobbare la miseria altrui, la situazione potrà solo peggiorare».
La preoccupa il crescente consenso per i populismi in Europa?
«Il problema è che la politica è diventata un’industria del divertimento e i cittadini hanno votato quasi per gioco. Dobbiamo auspicare che la politica si riappropri di un certo rigore altrimenti i valori stessi della democrazia barcolleranno sotto il peso della spettacolarizzazione. Avrei una modesta proposta».
Prego.
«Credo che per aver diritto di voto si debba dimostrare di conoscere le regole essenziali della democrazia. Dobbiamo riprendere a dialogare e confrontarci sui temi civili altrimenti scivoleremo nella violenza e nell’alienazione».
Come si divide fra la scrittura di finzione e quella sui giornali?
«Scrivo usando due penne. Una per le storie di finzione, ascoltando tutte le voci e i personaggi e seguendo i conflitti; l’altra la uso per raccontare l’attualità, quando sono molto arrabbiato con il mio governo. Oggi sto scrivendo un nuovo libro ma non posso svelarvi ancora nulla».
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