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Vecchi bauli, nuove paure

Vecchi bauli, nuove paure

Quello striscione, ieri a Pontida. Tirato fuori, chissà, da qualche vecchio baule: lasciato lì da tempo, ben arrotolato in mezzo ad altri cimeli degli anni verdi (verde Lega Nord, neanche a dirlo). Un paio di camicie color prato dell’Alta Bergamasca, fazzoletti e cravatte d’identica padana tinta, ampolline con la sacra acqua del Po, una statuetta di Alberto da Giussano, spada al cielo.

Lo striscione non è particolarmente malconcio. Forse uno strappetto, in un angolo, forse no. La scritta è «secessione»: sembra di tornare ai tempi del Senatùr, di Bossi, di «Roma ladrona» (prima che si scoprisse che fior di ladroni circolavano pure tra le brume della Brianza), ai tempi della Lega quand’era Lega Nord, e i quarantacinquenni di adesso avevano poco più d’una ventina d’anni e già blateravano d’autonomia e secessione. Liberarsi dei parassiti del Sud era lo slogan, e – per due decenni almeno – giù con gli insulti.

Ai raduni di Pontida, in quegli anni, non c’era nemmeno l’ombra di un terrone. Nemmeno nei dintorni.

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Un pezzo d’antiquariato, quello striscione di ieri. Ci correggiamo: da stanzino d’un rigattiere, come le ampolle rabboccate col Po, come le t-shirt verde Lega Nord, come la parola secessione. I lumbard, ormai, amano Roma, vogliono Roma, vogliono il Sud, amano Lampedusa. Dotati di un’enorme capacità di perdono, i leghisti hanno in cuor loro assolto la famiglia Bossi, dimenticandone gli egoismi, e assolto i meridionali, tutti, Isole comprese, dimenticandone il «parassitismo», pure propagandato per anni.

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La Lega, per troncamento, ha perduto la parola Nord. È diventata nazionalista, sovranista. E del populismo fa il suo vessillo. Matteo Salvini sta immaginando adesso, e ciò dovrebbe suggellare la sua irresistibile ascesa, una Lega transnazionale, europea. La sfida, in vista delle elezioni europee del 2019, è al Ppe: lo slogan – appena coniato, ma già gronda testosterone – è «Il popolo contro le élite». Salvini guarda ai nuovi populismi del Vecchio mai maturo Continente, a Marine Le Pen anzitutto: sogna una Lega delle leghe. Sarebbe la lunga marcia del Carroccio, dal “particolare” (dalla Padania ma foss’anche dalla Baviera, poco importa) all’“universale” (l’Europa o il mondo intero, poco importa). Toni da crociata, simili a quelli di una ventina d’anni fa. Ma da “prima il Nord” si è passati a “prima gli italiani”. E adesso, con un’inquietante accelerazione, è come se Salvini dicesse “prima i populisti tutti”. È l’italiano, Salvini, che più d’ogni altro pensa “oltreconfine”. “Oltre” i lumbard fino al Mezzogiorno, “oltre” ogni sud della Libia, “oltre” ogni sud del mondo, “oltre” ogni lembo estremo, settentrionale destro e persino sinistro.

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Finora, in un mese di governo, tante parole e due decreti. E la guerra santa sui migranti con tre quarti d’Europa contro l’altro quarto che resta. E altri poveracci morti, e Ong – tutte – demonizzate.

La cosa divertente è che la frase più utilizzata è «a titolo personale». Abbiamo scoperto che: se Roberto Fico – presidente della Camera e esponente di spicco del M5S (è l’altro partito che governa con la Lega, ricordate?), non un passante – parla di migranti lo fa «a titolo personale»; se Vincenzo Spadafora, sottosegretario pentastellato alle Pari opportunità, parla dei diritti dei gay lo fa «a titolo personale»; e ovviamente anche la ministra della Salute Giulia Grillo, pure lei pentastellata, se parla di vaccini lo fa «a titolo personale» e «non rappresenta il governo». E Danilo Toninelli, responsabile dei Trasporti e quindi dei... porti? Anche lui pentastellato, neanche a dirlo. E anche lui, a quanto sembra, parla «a titolo personale». Perché ieri abbiamo appreso che anche su scali marittimi e scali e scale d’ogni genere comanda Salvini.

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