Venerdì 22 Novembre 2024

L’Italia e la mezza mela di Einaudi a firma Ferruccio De Bortoli

Ferruccio De Bortoli

Se “Le cose che non ci diciamo (fino in fondo)” sedimentano la maschera si fa pelle, perché – diceva Churchill – «una bugia fa in tempo a compiere mezzo giro del mondo prima che la verità riesca a mettersi i pantaloni». Nella versione originale, coniata dallo scrittore americano Mark Twain, c’erano le scarpe al posto dei pantaloni. E forse è stato il desiderio di inseguire e afferrare le menzogne in fuga che Ferruccio de Bortoli ha risalito la corrente del dibattito che in questi mesi si è dipanato attorno alla pandemia, richiamando vizi stratificati con l’acume di chi sa smascherare una falsità, prima che diventi volto. O farsa, come la crisi di governo, con le forze politiche che giocano una partita col morto di fronte a un’Italia smarrita. Così il suo ultimo libro, “Le cose che non ci diciamo (fino in fondo)” (Garzanti), appare come una macchina della verità, con la quale l’autore invita l’Italia dei populismi e delle ipocrisie a una catarsi collettiva, perché «dovremmo avere il coraggio di guardarci con più sincerità allo specchio. Dirci tutto». Nel bene di un Paese che si nutre di virtù radicate: solidarietà, civismo e senso del dovere. Nel male che si annida negli egoismi corporativi, nella conservazione a oltranza di privilegi non più sostenibili, nella politica orientata dal consenso e non dagli interessi collettivi. L’analisi cruda parte dalla sorgente, quella responsabilità che vaga nell’altrove, generatrice di «vittimismo di massa» ed elusione etica, mentre dovrebbe rappresentare il faro dell’azione civile e politica, evitando «narrative di comodo» che individuano le fonti del male «negli altri, nell’Europa, nei poteri forti e nella globalizzazione». Un approccio che è l’assoluzione sulla quale far leva per la spesa creativa, ignorando che le scelte di oggi sono i semi delle nuove generazioni. Così i tanti miliardi a disposizione, per fronteggiare le ferite economiche provocate dalla pandemia e ridare slancio al futuro, sono stati polverizzati in un coacervo di progetti frammentati, espressioni di una logica quasi da sagra: «Abbiamo assistito allo scialo delle promesse – scrive Ferruccio de Bortoli – . Ci si accorge che i 209 miliardi, tra sussidi e prestiti che spettano all’Italia, sono già finiti da un pezzo. Con i soldi europei si pensa ancora di poter far di tutto: dal taglio delle tasse al ponte o tunnel di Messina; dalla ricostruzione di Amatrice alla fiscalità di vantaggio per il Sud». Una dispensa finanziaria che, invece, dovrebbe servire a nutrire le prossime generazioni: «Non soldi a pioggia per trovare consenso immediato«. Eppure le direttrici sono chiare: sanità, capitale umano, inclusione, digitalizzazione, transizione energetica, sostenibilità, produttività, coesione sociale, occupazione, competitività. Ma, direbbe, George Orwell, «in tempi di menzogna universale dire la verità è un atto rivoluzionario». E l’autore ci ricorda che «siamo diventati più poveri e bisogna rimboccarsi le maniche, senza aspettare gli aiuti di Stato»: «Il rischio zero non esiste. Non ci sono comodi nidi o facili rifugi. Dirlo chiaramente aiuta le giovani generazioni a compiere le loro scelte di vita. A investire nello studio e nel sacrificio. Non ad aspettare l’occasione sul divano». Il Reddito di cittadinanza è stato un salvagente «per quella fascia di popolazione che si è impoverita, ma ha anche incentivato pigrizia e fatalismo»: «Troppi no a lavori, anche stagionali, detti da persone che preferivano non pregiudicare il loro assegno di cittadinanza». Verità scomode che inchiodano alla mistificazione scelte demagogiche «e sciagurate»: «Come “Quota 100” – osserva l’autore –. Ci ha pensato la Corte dei conti a fare le pulci contabili al provvedimento simbolo della Lega. Fuori gli anziani (tra i quali tanti medici e infermieri), ma pochi pochissimi giovani dentro». Intanto la spesa pensionistica si dilata, un’altra ombra sulle nuove generazioni. E il Reddito di cittadinanza? Fallimentare: «Risultano essere state accolte – scrive il procuratore generale della Corte dei conti – circa un milione di domande, a fronte di 2,4 milioni di richieste, soltanto il 2% ha dato luogo a un rapporto di lavoro tramite i centri per l’impiego». Ma in tempi di pandemia siamo riusciti a esaltare la fantasia assistenziale e clientelare, sfornando bonus e sussidi degni del programma elettorale di Cetto Laqualunque. E giù contributi per monopattini e biciclette, bonus di 500 euro urbi et orbi, senza distinzione di reddito, «figli di papà compresi». Poi ci sono gli incentivi al «trasporto su gomma e su ferrovia», giusto per essere equi e accontentare «le contrapposte consorterie». Una selva di agevolazioni e mance a fondo perduto che l’autore del libro viviseziona controcorrente. Senza trascurare lo «scandalo» degli incentivi alle energie rinnovabili che ha «consentito investimenti finanziati per l’80 per cento a debito», spianando la strada «a molti imprenditori improvvisati che nulla rischiavano se non il leggero disturbo di cogliere al volo un’opportunità tutta a carico della collettività». Ferruccio de Bortoli guarda all’impresa privata come spina dorsale per la crescita dell’Italia, ma «tra le tante cose che non ci diciamo c’è anche la cattiva coscienza degli imprenditori e dei professionisti – scrive –. Di tutti coloro che, pur guadagnando di più, hanno finito per pagare meno tasse. E poi ci sono quelli che dopo aver messo in cassa integrazione hanno ripreso l’attività, in diversi casi meglio di prima, ma hanno ridotto l’occupazione». Un dato? «L’Ufficio parlamentare di bilancio ha denunciato che un quarto delle aziende che avevano richiesto la cassa integrazione non aveva subito alcun calo di fatturato»: «Tutto ciò stride con l’atteggiamento di responsabilità della stragrande maggioranza degli imprenditori. Cioè di coloro, tantissimi, che hanno anticipato, per esempio, la cassa integrazione ai dipendenti». Solo il valore collettivo ci può salvare: «Se ognuno di noi pensa solo a sé stesso, alla propria azienda, studio, ufficio, famiglia – avverte l’autore – non abbiamo speranze per il futuro con uno Stato indebitato fino al collo». Come dice quel proverbio africano, «se vuoi arrivare primo cammina da solo, se vuoi arrivare lontano cammina insieme». E soprattutto affidati al pragmatismo e non all’ideologia. Una lezione anche per uno Stato che non impara dalla storia e insiste pervicacemente nell’intervento pubblico per sanare emorragie (Alitalia docet) che da decenni bruciano ingenti risorse collettive. Nel nome dei “gioielli di famiglia” che rischiano di diventare chincaglieria da mercatino dell’usato, chiusi in una fortino domestico presidiato da quelli che una volta si definivano boiardi di Stato e oggi manager. Così, mentre si pensa a tamponare le falle, perdiamo di vista una vera emergenza nazionale: istruzione, formazione, ricerca. Non investiamo sul capitale umano: «Questa è la cosa più amara che non ci diciamo – osserva de Bortoli – . È il riflesso suicida di una società anziana concentrata su se stessa, sulla conservazione del proprio potere, del proprio benessere, ingiusta nei confronti delle nuove generazioni (che appunto se ne vanno)». Ma è anche una questione di diritti fondamentali, quelli negati ai bambini di alcuni quartieri di Palermo, Napoli e Catanzaro, dove la «povertà educativa si trasforma in una sentenza irreversibile di povertà assoluta». Una condanna a vita, un ergastolo di Stato inflitto a un innocente. In questi ghetti il diritto costituzionale scompare, mentre appare distorto e prepotente in altri contesti, dove – per esempio – lo smart working di Stato è degenerato in comodismo di Stato, perché «siamo specializzati nel dare significati diversi alle parole, piegandole ai nostri fini». Parole depotenziate, svuotate, o limitate a circostanze di emergenza perché impopolari. Come «sacrificio»: «Vivere non è mai stato facile – de Bortoli nell’ultimo capitolo – . Il benessere non è un diritto e i sacrifici sono ancora più necessari oggi. Ma nessuno ne parla. La concorrenza premia il merito, lo studio, la capacità di accettare rischi e pagarne eventualmente le conseguenze». E allora non «dobbiamo nasconderci molte verità amare» per evitare che le menzogne assumano maschere ingannevoli. Abbiamo bisogno, come disse Papa Francesco, «di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è». Un po’ come la mela di Einaudi, necessaria: «Il pranzo consistette in prosciutto e melone, consommé branzino lesso e frutta. Alla frutta, Einaudi prese dalla fruttiera una mela, e mi chiese: Ne vuole mezza?». Così Indro Montanelli raccontava il suo pranzo al Quirinale con l’allora presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, di cui – ricorda Ferruccio de Bortoli – erano leggendarie la parsimonia e l’oculatezza: «È una metafora di grande attualità. Si condivide ciò che si ha e non si spreca nulla. Guai». La mela di Einaudi. Necessaria per crescere.

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