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"Il tallo di terracotta, il nuovo romanzo del locrese Pancallo è un “cunto nel cunto”

Qual è la ragione per cui un medico come Renato Roberto Pancallo, calabrese di Locri, sente imperiosa l’esigenza di scrivere? Forse è la fantasia, la “strana” di casa, a farsi strada attraverso la scrittura nel vissuto di Pancallo, il cui ultimo romanzo, “Il tallo di terracotta” (Bonaccorso editore), sembra essere un “cunto”, diretto discendente di quella narrativa orale popolare che ha arricchito il patrimonio letterario italiano viaggiando nel tempo e nello spazio.

E non è certamente una fiaba questo romanzo (che segue a “Il paese delle lucertole”, edito da Pellegrini, premio Rhegium Julii), “La luce delle mezzetinte” (Pellegrini, premio il Ramoscello d’ulivo), “Il testamento di palazzo Fragalà” (Pellegrini, premio Città di Siderno), radicato com’è nel nostro tempo e nello spazio siciliano, anche se dalla fiaba sembra emergere la storia picaresca del tredicenne Cecè, che nel 2016 si ritrova in un carcere minorile di Bologna perché le vicende della vita (senza padre e abbandonato dalla madre) lo hanno fatto diventare un abile ladruncolo. Ma il lieto fine per Cecè arriva subito, già nelle prime pagine del romanzo.

Pancallo, scegliendo una soluzione da “fiaba”, appunto, nel mettere accanto a Cecè due nuovi genitori che lo accudiscono amorevolmente, ricorre a una sorta di rinuncia narrativa a raccontare la parabola di formazione del ragazzo (che pure sarebbe stato interessante leggere) per cambiare coordinate e tornare indietro nel tempo, al 2003, e nello spazio, in Sicilia. Un “cunto” nel “cunto” che da un certo punto in poi pare assecondare una certa letteratura voyeuristica, come se dalle gelosie di una finestra di una casa di un paese siciliano lo sguardo si volgesse a una vicenda di amori e tradimenti, adulteri e passioni di provincia. Tutto affidato all’occhio di un narratore apparentemente extradiegetico, ma che in realtà pare interno ai fatti e segue le storie di Maria, don Carmine, Caterina, Rosalia, Elisabetta.

Sono soprattutto i personaggi femminili al centro dell’attenzione di Pancallo: di modesta estrazione sociale e culturale, sembrano segnati dal destino della bellezza, una sorta di colpa nella palude della provincia in cui vivono, sonnolenta e vischiosa, comandata dalle solite “famiglie”. Il sesso, così, spacciato per amore, vissuto dai personaggi con un’ebbrezza di ardente vitalità, diventa l’unico modo di affermare la propria emancipazione, benché poi tutti sembrino piuttosto vittime da liberare. E solo chi va via dalle sirene dell’isola può salvarsi o redimersi.

Nel gioco delle coppie, e nell’inferno personale del libertino prete don Carmine, la vita sessuale stessa diventa un campo di forze, intristita e schiacciata dall’insignificanza della quotidianità e dal vuoto morale dell’io.

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