Bellocchio e la ‘via della bellezza’, il maestro ha incontrato il pubblico messinese prima della proiezione di “Rapito”
L’identità, il peso dei dogmi e dei sistemi di potere, la grande Storia e le storie delle famiglie e degli individui, il corpo e il corpo sociale. E poi un’altra vicenda di rapimento – dopo quello, trattato in ben due opere diverse, con una felicità e completezza d’approccio fenomenali, di Aldo Moro – un altro corpo conteso, un altro dramma che è assieme nodo storico e trauma individuale e familiare. E il rapporto, sempre complesso, con la Chiesa e col cattolicesimo, ma anche con la fede, l’appartenenza. Con uno stile personalissimo, di sguardo e di ardimento dell’immagine, che non rinuncia a momenti visionari di grandissima suggestione. Tutto questo è «Rapito», l’ultimo film del maestro Marco Bellocchio, 83 anni di pura energia creativa. Un film che, dopo il successo a Cannes, al botteghino è i primissimi posti, tra supereroi e sirenette, ma soprattutto sta richiamando e coinvolgendo il pubblico italiano. Come quello (soprattutto di giovani) che sabato gremiva la Sala Fasola di Messina, dove il grande regista, accompagnato da due degli attori del film, Barbara Ronchi e Fausto Russo Alesi, introdotto da Loredana Polizzi, infaticabile organizzatrice e anima della multisala e di Spazio Arte Apollo, ha incontrato il pubblico. È una storia vera, quella di Edgardo Mortara, il bambino “rapito” del titolo, che pure nella locandina sembra solo un bambino in braccio a un adulto, anche se il bambino ha una tonaca e l’adulto è il Papa, anche se l’adulto ha uno sguardo sorridente mentre quello del bambino è timoroso, e allora forse quell’abbraccio è un modo d’imprigionare, sia pure travestito di protezione e agito col sorriso. E forse quel bambino non si sta abbandonando a un affetto, ma sta costruendo, senza nemmeno saperlo, una strategia di sopravvivenza. Edgardo (il bravissimo, piccolo Enea Sala) è il bambino ebreo che è stato battezzato di nascosto da una domestica, e quando la cosa si viene a sapere viene sottratto alla famiglia per ricevere un’educazione cattolica. Rapito. Ex lege, ma, di fatto, rapito. Una storia irresistibile, per Bellocchio: «Leggendo di questo piccolo bambino ebreo e delle sue vicende sono rimasto coinvolto, ho “visto” delle immagini, e da qui il desiderio di rappresentare questa storia in un film». Una storia che aveva attratto anche altri registi: «Pure il grandissimo Spielberg – dice – aveva cominciato a lavorarci: i suoi scenografi, i direttori della fotografia erano già venuti in Italia, avevano fatto già dei provini. A dimostrazione del fatto che è una storia palpitante. Noi veniamo da un lungo giro di promozione, a Cannes poi in Italia e quello che mi stupisce e mi fa piacere è ogni volta l’emozione che il pubblico ci comunica, ed è la mia stessa emozione di quando ho conosciuto e ho letto questa storia». Perché è una storia che non solo emoziona, ma aggancia una serie di questioni cruciali, per il cinema di Bellocchio. Tanto più adesso, che un tema scottante del dibattito pubblico è l’identità come pura appartenenza, la nascita come destino. Ma anche i rapporti dell’autore di film come «L’ora di religione» con la Chiesa e la fede. «La mia – dice Bellocchio – è una posizione non particolarmente polemica: il credente e il non credente possono trovare terreno comune di dialogo e discussione senza che uno voglia convertire l’altro. Di recente ho partecipato a un dibattito col direttore di “La Civiltà cattolica” padre Spadaro: portai come argomento, ma non direi di confutazione, un’immagine celebre del film di Dreyer “Ordet”, dove un personaggio, Johannes, che sta ai margini della società, fratello di una donna appena morta di parto, s’avvicina al corpo della donna, che è esposto, dice qualcosa ed ecco che avviene un miracolo: la donna rivive. Quel miracolo non mi ha convertito, né ha messo in discussione la mia laicità, ma quella particolare scena d’un miracolo, ho raccontato, m’ha emozionato. L’emozione la devo riconoscere: Dreyer, uno dei più grandi registi della storia del cinema è riuscito a rappresentare un miracolo con una tale sua convinzione, una tale qualità d’immagini che è riuscito a commuovermi. Quindi io ho detto, a quell’incontro: vi do la mia commozione, che non significa conversione. E che è un’esperienza che si vive soprattutto nel campo dell’arte: più di tanti teologi sono i grandi artisti, pittori, scrittori, che hanno fatto avvicinare la gente alla religione. Quelli sono i grandi veicolatori d’una possibile fede. La via della bellezza». Lei è uno di loro, è un artista, lei tratta l’emozione. Pensiamo alla scena, fortissima, del film in cui il bambino immagina, sogna di liberare Gesù dalla croce. «È chiaro che lì non si danno tante spiegazioni. Che sia sogno, visione o fantasticheria: conta il corpo della scena e la capacità di emozionare. In questo caso il piccolo bambino che di sua iniziativa va a liberare il Cristo. Che poi è chiaro che se si cercasse la verosimiglianza, non sarebbe così facile. È tutto finto, ma è vero nell’immaginario». Il cinema, l’arte, l’immaginazione di artisti come lei salverà il mondo? «Magari. Sicuramente ci mette a confronto con gli altri, chi crede e chi non crede. Che ci si riesca più o meno, è la sincerità con cui tu cerchi di rappresentare quello che desideri». Rappresentare una vicenda dolorosa e complessa, in cui un ruolo cruciale giocano i genitori di Edgardo, a cui viene proposta la restituzione del bambino, a patto che si convertano e rinuncino alla loro fede. E i genitori reagiscono diversamente: facce diverse dell’identico trauma. Barbara Ronchi, fresca di Nastro d’argento per il film “Settembre” di Giulia Steigerwalt, al suo secondo film col maestro Bellocchio: dalla madre di “Fai bei sogni” alla madre del “Rapito”. «In “Fai bei sogni” – dice l’attrice – era una mamma molto diversa, che viveva nei ricordi del suo bambino, una mamma giovane, luminosa, che aveva momenti di disperazione negli occhi, ma era un ricordo; qui è una mamma terrena, che assume nel proprio cuore tutto quel che succede, vive tutta questa vicenda fino alla sua morte. È tutto vero quello che vedrete, è tutto nelle fonti, c’è un rigoroso contesto storico, da questo punto di vista è un film grandioso, ma quella storia lì così familiare è il nucleo di quell’emozione...». E il padre di Edgardo è l’attore palermitano Fausto Russo Alesi, al suo sesto film con Bellocchio: recentemente è stato Giovanni Falcone in «Il traditore» e uno straordinario, disturbatissimo Francesco Cossiga in «Esterno notte». «Sono siciliano – ha detto l’attore – e per me ha un grande valore essere qui. Il mio personaggio è un padre dentro una grande storia tragica e dentro una grande opera di Bellocchio, quindi per me è ancora una volta un grande viaggio nell’essere umano. Il padre che raccontiamo è anzitutto un essere umano che viene privato di un diritto essenziale. Il lavoro di preparazione è stato intenso e coinvolgente: abbiamo incontrato comunità ebraiche, siamo stati affiancati da un consulente , ma è stato soprattutto, momento per momento, provare a capire e rendere tutti i sentimenti umani di fronte a un abuso di potere come quello che la famiglia Mortara subisce». L’ennesimo viaggio nell’umano di Bellocchio, cercando – sempre – la via della bellezza.