«Stephen King ha scritto almeno quindici libri indispensabili. Non c’è nessuno come lui». Firmato Luca Briasco, l’autore di «Il re di tutti. Un ritratto di Stephen King» (Salani). Editor, saggista e agente letterario, Briasco è la “voce” italiana di Stephen King dal febbraio 2018, avendo tradotto in cinque anni sei romanzi («The Outsider», «L’istituto», «Later», «Billy Summers», «L’ultima missione di Gwendy», «Fairy Tale»), una novella («Elevation») e una raccolta di racconti («Se scorre il sangue»). Americanista ed esperto di letteratura, ha fatto conoscere al pubblico italiano autori del calibro di Don Winslow, Joe Lansdale e Hanya Yanagihara; con “Il re di tutti” firma un atto d’amore destinato a diventare un libro cult per i kinghiani, una guida alla lettura attenta e piena di chicche, un testo che ci accompagnerà per lungo tempo nei sentieri del romanziere del Maine. Inoltre, rivela alla Gazzetta che ha consegnato la traduzione del nuovo libro di King, «Holly», in uscita a settembre (sempre per Sperling&Kupfer).ù
Briasco, come si è preparato per scrivere questo libro?
«Ho riletto tutta la produzione letteraria di King, mi sono immerso nel flusso delle sue parole».
Forse è proprio King l’artefice del Grande Romanzo Americano?
«Per molto tempo è stato considerato come il re dell’horror, eppure ha venduto decine di milioni di copie ed è letto in tutti gli angoli del globo. Ragioniamo erroneamente per genere e con una certa prosopopea guardiamo ai romanzi popolari, ma il dato di fatto è che King racconta l’America come nessun altro. Basta leggere “It”».
Perché?
«Un testo esemplare, la sintesi estrema del genere horror in cui il mostro narrato diventa metafora di ben altro. King fotografa l’America, inducendo il lettore a spaventarsi del Paese in cui vive».
King ha colto la deriva americana?
«King ha scritto e twittato apertamente contro Donald Trump ma in realtà esprime il culmine di un fenomeno che parte da lontano, ovvero da Reagan e la sua dottrina economica. Non a caso, dagli anni 80 con “It” e “Cose preziose” la scrittura di King diventa estremamente politica scagliandosi contro l’egoismo diffuso e quel darwinismo economico sul quale l’America ha ripiegato, perdendo di vista i valori della solidarietà e della condivisione con cui King è cresciuto. Ecco perché in It, e non solo, celebra l’amicizia, il gruppo, quei ragazzini difettosi che, unendosi, si salvano l’un con l’altro».
Viene meno l’idea del self-made man?
«Assolutamente. King racconta l’America salvata dai perdenti e della comunità che fa gruppo davanti al male. Questo è un discorso molto politico che comincia negli anni 80».
Non tutti si sono resi conto, inoltre, che King porta avanti un discorso femminile e femminista.
«Esatto. Nella sua vita, la madre e la moglie si sono presi cura di lui, spingendolo a scrivere e prendendosi cura della sua scrittura che combacia perfettamente con la sua stessa vita. Questa attenzione si ritrova almeno in tre romanzi: “Il gioco di Gerald” (1992), “Dolores Claiborne” (1992) e “Rose Madder” (1994) in cui troviamo elementi stilistici raffinati e il racconto di un orrore tutto umano, affidato ai personaggi maschili più rivoltanti creati da King».
Come mai King ha scelto di scomparire sulla pagina?
«Estremamente metodico, scrive sei pagine al giorno ma chiaramente dietro questa apparente facilità d’uso sappiamo che si nascondono tutte le traversie dei percorsi creativi. King si propone come un impiegato dell’immaginazione e ha scelto di restare nel Maine perché lì non succede niente. Lo trovo geniale. Vive in un luogo in cui non c’è ostacolo all’immaginazione e non esiste il concetto di mondanità, niente che possa distrarlo dalla creazione».
King fa metanarrativa?
«A tonnellate. Nessuno come lui racconta il processo di scrittura, mettendo in scena romanzieri e spingendoli al limite, creando un romanzo dentro il romanzo, come accade in “Misery”. Queste tecniche solitamente sono associate alla cosiddetta letteratura “alta” ma King riesce a farlo, senza smarrire il passo da narrativa popolare. Queste cose fanno saltare i paradigmi e sì, possono infastidire».
Sempre unico, mentre fioriscono personaggi seriali King ha scelto una strada molto diversa. Ovvero?
«Il suo manifesto di scrittura prevede che lo stile e lo sviluppo siano funzionali alla storia che fa da aggregatore dei personaggi. In King non c’è mai sfoggio di bravura, non ci sono pagine superflue e tutto ciò può suscitare fastidi, persino incomprensioni».
Lei cita Conrad, «l’unico orrore è che non esiste orrore». A tal riguardo, come la pensa King?
«Lui crede assolutamente nel binomio bene/male, è senza dubbio un autore romantico che ama il lieto fine, fermamente convinto che il male sia stupido e ripetitivo, per cui il fascino che esercita dev’essere ridimensionato. Contestualizzato in questa accezione, King appare quasi ottocentesco, dickensiano».
In che senso?
«Il cattivo di King è cattivo senza riscatto, come si evince da Randall Flagg. D’altra parte, Jack Torrance di Shining ha creato letture divergenti: King racconta un padre, gli fa avvertire il male che farà al figlio e affronta quel disagio spaventoso, provando a combatterlo; invece, questa lotta interiore scompare nel film di Kubrick in cui è solo un cattivo senz’appello».
Immaginiamo un lettore che voglia iniziare a scoprire King. Da dove dovrebbe partire?
«Sicuramente con “Stagioni diverse”, in cui si evince che King non è uno scrittore di genere. Poi l’immancabile “It” e infine, “Il miglio verde”».
Che libro sarà “Holly”?
«Per la prima volta c’è un personaggio che appare in sei libri. Holly è una ex ragazza bullizzata a scuola, con l’aria della nerd e una madre oppressiva ma grazie ad un padre putativo, finalmente sboccia. Il suo talento è quello d’investigare è in “Holly” avrà un compito arduo, non sarà alle prese con un male metafisico ma con due anziani professori che sono completamente impazziti e rapiscono e uccidono persone per poi mangiarle, trattando così anche il tema del cannibalismo. Holly è un romanzo a tinte horror».
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