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'Ndrangheta a Vibo, rese note le motivazioni di Rinascita Scott: “Pittelli a disposizione dei Mancuso”

A sei mesi dalla pronuncia della sentenza di primo grado del maxiprocesso “Rinascita Scott” sono ora note anche le motivazioni che hanno portato il Tribunale collegiale di Vibo (presidente Brigida Cavasino, giudici a latere Germana Radice e Claudia Caputo) a condannare 200 persone sulle 338 che erano imputate nello storico procedimento istruito contro i clan vibonesi. Per arrivare al deposito delle motivazioni, contenute in 3300 pagine, ci sono voluti ulteriori 90 giorni di proroga rispetto ai primi tre mesi. Tra i principali imputati c’era, com’è noto, l’avvocato ed ex parlamentare Giancarlo Pittelli, condannato a 11 anni (a fronte dei 17 chiesti dalla Dda di Catanzaro) per concorso esterno in associazione mafiosa.

La sua condotta viene definita «tutt’altro che occasionale» dai giudici, secondo i quali emerge «con chiarezza» dall’esame organico di tutti gli elementi probatori come il penalista «costituisca un punto di riferimento stabile sul quale la consorteria fa affidamento per la risoluzione delle più svariate problematiche e per il soddisfacimento delle diverse esigenze che via via sorgono nella vita del sodalizio». Dalla maxinchiesta emerge insomma con evidenza la «assoluta e sistematica messa a disposizione di Giancarlo Pittelli in favore» del clan predominante nel Vibonese, i Mancuso. E rilevante è per i giudici anche la circostanza che Pittelli riceva l’incarico di curare le questioni di interesse del clan «direttamente» dal suo «più “autorevole” rappresentante», cioè il superboss Luigi Mancuso, offrendo così «un contributo causale determinante all’associazione nel suo complesso» anche in un momento di particolare «fibrillazione» come quello in cui «si diffonde la inaspettata notizia della collaborazione con la giustizia di Andrea Mantella».

Mancuso si rivolge a Pittelli «consapevole di poter confidare sulla importante rete di relazioni dell’avvocato, il quale non esita ad attivarla prontamente a beneficio dell’associazione». Il clan così «riesce ad allungare i propri tentacoli, a raggiungere e ad insinuarsi abilmente all’interno delle istituzioni e dell’imprenditoria». Ottenendo, per esempio, l’intervento di un agente della Dia, l’aiuto di un colonnello dei carabinieri e la «disponibilità» di un magistrato. I giudici in proposito rilevano che appare evidente come «travalichi nettamente i limiti dell’incarico professionale il difensore che si renda disponibile a recuperare informazioni coperte da segreto istruttorio, a influire in modo irregolare o illecito su un procedimento (amministrativo o giudiziario), a coadiuvare il boss nell’attività di controllo del territorio in occasione di importanti investimenti imprenditoriali». E del tutto «irrilevante» è per il Tribunale la circostanza che in alcuni casi l’obiettivo non sia stato raggiunto.

Il quadro che ne viene fuori disvela dunque «un inquietante collegamento tra criminalità organizzata e istituzioni» e fa richiamare ai giudici la deposizione del pentito Cosimo Virgilio sui “colletti bianchi” che avrebbero fatto da interfaccia tra massoneria e ‘ndrangheta. E ci sarebbe anche un rapporto sinallagmatico tra il penalista e il boss perché la «contropartita» per Pittelli sarebbe andata dal «conferimento di lucrosi incarichi» alla «possibilità di spendere il nome di Luigi Mancuso in ambienti sensibili a simili prospettazioni per ricevere benefici economici e imprenditoriali»

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