Da anni è ormai l’uomo invisibile del cinema mondiale: non si mostra in pubblico, ha trasformato il suo domicilio ginevrino nella «caverna» di Platone, schiva le cerimonie ufficiali, non accompagna i suoi film, evita perfino di ritirare i premi. Facile prevedere che anche domani, giorno del suo novantesimo compleanno, Jean-Luc Godard si noterà soprattutto per la sua assenza. Sarebbe già un miracolo se si manifestasse come un Vate nell’oceano della Rete, ma la ricorrenza fa comunque rumore. Nato a Parigi dal genitori protestanti svizzeri il 3 dicembre 1930, si può permettere un’adolescenza da studente curioso e specialmente sensibile al mondo americano, conosciuto come casa sua, grazie alle centinaia di film che può vedere alla Cinémathèque francese del Palais de Chaillot sotto la paterna tutela del suo mentore, Henri Langlois. Si laurea in etnologia alla Sorbona, comincia a scrivere di cinema per la Gazette du cinema (un esplosivo saggetto su Joseph Mankiewicz nel 1950), entra nel giro dei «Cahiers du cinéma» due anni dopo firmandosi con lo pseudonimo Henri Lucas. Incoraggiato alla madre, erede di una stirpe di banchieri, comincia a viaggiare per vedere dal vivo, poi trova lavoro in Svizzera per la costruzione della diga della Grande Dixence nel Vallese. E’ una breve parentesi perché poi ritorna a Parigi e si fa prendere dal demone della creatività generata dalla «Nouvelle Vague» nascente, filma i suoi primi cortometraggi e si lega di profonda amicizia a François Truffaut con cui nel '58 realizza "Une histoire d’eau». L’amico gli passa il soggetto di «Au bout du souffle» (All’ultimo respiro) con cui debutta da regista nel '59.
Il manifesto della Nouvelle Vague
Fin da quel folgorante esordio (con l’astro nascente Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg) diventa un punto di riferimento, il film è adottato come manifesto della Nouvelle Vague e ai produttori piace il suo atteggiamento iconoclasta ma devoto ai grandi generi popolari come, nel caso in questione, il poliziesco. Per dieci anni, fino al 1967, lavorerà a rotta di collo con ben 22 titoli (tra lunghi e corti) che fanno storia, tra cui «Le petit soldat», «Les carabiniers», «Une femme est une femme», «Le mepris», «Bande à part», «Une femme mariée», «Weekend», «Deux ou trois choses que je sais d’elle». Nel frattempo trova il modo di sedurre la sua attrice-feticcio, Anna Karina, rompe l’amicizia con Truffaut per questioni di ideologia politica ed estetica, prende le distanze dalla maggior parte delle correnti in voga, ritagliandosi un ruolo di polemista, pioniere del nuovo. Ogni suo titolo fa scalpore, decostruisce letteralmente i codici della narrazione, trionfa anche al box office con «Pierrot le fou» (1965), arruola Brigitte Bardot (e Fritz Lang) per «Le mepris», partecipa alle contestazioni del '68 sia in strada che al festival di Cannes, l’ultima sua apparizione in compagnia di Truffaut. Infatti già l’anno prima, nel '67, ha scelto una nuova via artistica: quella dell’impegno politico.
Il periodo militante
Dirige «La chinoise» e dà il via al suo periodo militante culminante negli anonimi "Cinetracs" del gruppo Dziga Vertov, «Vento dell’est» con Gian Maria Volonté e «Crepa padrone tutto va bene» ("Tout va bien") con Yves Montand del '72 in cui fa il bilancio critico di una generazione di intellettuali scollati dalla vita reale, più o meno come negli stessi anni fa in Italia Citto Maselli con "Lettera aperta a un giornale della sera». Del dandy sofisticato e viveur con cui si era imposto sulla scena parigina rimane ormai ben poco: piccolo, solitario, perennemente corrucciato, ingolfato in pesanti maglioni e protetto dagli occhiali scuri, ha scelto la solitudine e la riflessione. Va in Canada per un ciclo di conferenze e torna indietro con l’utopistico progetto di riscrivere a modo suo la storia del cinema: ne nasce un’opera visionaria e volutamente astratta che influenzerà il periodo successivo. Si richiude infatti a Grenoble per tre anni, taglia ogni contatto col mondo produttivo e si mette a sperimentare le tecniche della visione concentrandosi sugli aspetti tecnici: manipola la pellicola e i processi di sviluppo, usa mezzi economici e semi-professionali come il supporto 8mm, inventa obiettivi e tecniche di montaggio mai sperimentate.
La rivoluzione della banda magnetica
Negli anni '70 è già pronto per la rivoluzione della banda magnetica con cui sostituisce la pellicola e si propone come pioniere delle nuove tecnologie. In parallelo sviluppa anche un’estetica e una linguistica del cinema assolutamente fuori dagli schemi. Nel '75 gira in video «Numéro Deux» che assomiglia più a un saggio per immagini che a un film in senso proprio. Nella bacheca di casa ha già due Leoni d’argento per «Questa è la mia vita» e «La cinese», insieme a moltissimi altri riconoscimenti, ma tutto ciò sembra non interessarlo più: vuole proporsi come un pioniere anche al tempo dell’immagine elettronica e digitale, i suoi riferimenti sono Vertov, Ejzenstein, Griffith, autori che prima di lui hanno coniato un nuovo linguaggio. Nel 1982 la Mostra del Cinema gli conferisce un Leone d’oro alla carriera che lo spinge a un nuovo attivismo. Torna al Lido un anno dopo con il rivoluzionario «Prénom Carmen" e il presidente della giuria, Bernardo Bertolucci, spiega ai suoi giurati che intende dargli il massimo premio ancor prima di vedere il film. Il pronostico si avvera e il film vince il Leone d’oro.
Tra il 1988 e il 1997 la sua grande utopia
«Passion» (82) e «Prénom Carmen» (83) sono i titoli spartiacque dell’ultima vita artistica di Godard. Seguiranno molte altre prove (l'uomo resta un onnivoro consumatore e creatore di immagini) tra cui capolavori indecifrabili ma pieni di suggestione come «Nouvelle vague» (in cui tutti i dialoghi sono desunti da film del passato), lo scandaloso «Je vous salue Marie» , «Germania nove zero» in cui rilegge a modo suo Rossellini. Tra il 1988 e il 1997 mette mano alla sua grande utopia: «Histoire(s) du cinema», una bibliografia filmata della settima arte che tradurrà in 4 volumi prodotti da Canal+. Nel 1995 il festival di Locarno rende omaggio allo svizzero Godard (che nel frattempo è tornato a casa, nella sua Ginevra dove oggi vive) con il Pardo d’onore. Nel 2011 a lui si inchina anche Hollywood con un Oscar alla carriera. Di recente ha salutato il Festival di Cannes con « Adieu au language » (2014, Premio della Giuria) e «Le livre d’image» (2018). Per l’occasione la giuria decide, d’accordo con il Festival, di assegnargli una Palma d’oro speciale.