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Il docufilm della reggina Sophia Luvarà: eccola, la "Parola d'onore"

La vicenda dei ragazzi tolti all'ambiente della 'ndrangheta e resi liberi di scegliere un'altra vita: il felice modello Di Bella

Alcuni dei protagonisti nella locandina del lungometraggio
Alcuni dei protagonisti nella locandina del lungometraggio

In un piccolo luogo di frontiera, il Tribunale dei Minorenni di Reggio Calabria, crocevia di sofferenze e di speranze, cinque giovani, Pierpaolo, Simone, Bader, Reda e Alfonso, che hanno incontrato la ‘ndrangheta, sperimentano una strada alternativa alla criminalità, sotto la guida del presidente Roberto Di Bella. Parla di questo il documentario “Parola d’Onore” – oggetto tra l’altro del progetto “Liberi di Scegliere” – , che sarà trasmesso da RaiUno stasera alle ore 23.50, all’interno dello spazio settimanale di approfondimento Speciale Tg1.

Il film è una coproduzione Olanda-Italia (è stato trasmesso sul canale NTR) ed è stato supervisionato e patrocinato dal Ministero Giustizia- Dipartimento Giustizia Minorile. Ha avuto la prima internazionale al Biografilm International film festival – in gara come miglior documentario – e sarà proiettato anche al Thessaloniki international film festival. In cantiere c’è anche la possibilità che venga acquistato da televisioni straniere. Riconoscimenti che rendono merito alla scommessa della sua regista: la reggina Sophia Luvarà, al suo secondo lungometraggio, tornata nella sua terra, dopo una lunga assenza (dopo una laurea scientifica e un dottorato di ricerca ha vissuto a lungo a Londra, dove ha scoperto la passione per il cinema e realizzato il fortunato docu “Inside the Chinese Closet” sull’omosessualità nella Cina rurale), per affrontare la complessa e delicata realtà della ‘ndrangheta.

E lo ha fatto abbattendo ogni barriera e parete, andando sui luoghi che decretano il destino e il futuro dei giovani. A tu per tu con le contraddizioni, le lacerazioni interiori e la sofferenza dei ragazzi provenienti da contesti degradati, ma anche con il grande impegno dei giudici minorili e degli operatori della comunità nell’attività di recupero.
Le aule del riscatto e della rieducazione diventano le scene del racconto delle ferite che quella violenza lascia nell’animo: senza sangue, cadaveri o pistole, ma con la forza emotiva e coinvolgente di chi, alla fine del percorso, scopre che nulla è perduto se la scelta è quella coraggiosa di rompere i lacci familiari della ‘ndrangheta.
Le storie e le dinamiche sono reali perché la regista entra in tribunale e nella comunità ministeriale di via Marsala, ubicata all’interno del plesso che ospita gli uffici giudiziari minorili reggini. Gira durante le udienze (per quasi due anni) e riprende il lavoro dei giudici e la vita dei ragazzi (tutti imputati in procedimenti penali), in comunità e non solo.

E se non tutti provengono da contesti di criminalità organizzata, certamente le radici di Alfonso sono quelle di una famiglia che annovera detenuti per associazione ’ndraghetistica. È lui la figura più emblematica. Alfonso, diversamente dagli altri, non è stato in comunità ma in carcere e viene condannato dal presidente Di Bella. Eppure, non gli serba rancore. Anzi cerca il “suo” giudice, che pure lo ha fatto “soffrire” per un confronto; per consigli di vita e per condividere il suo riscatto fuori dalla Calabria.
Il finale è aperto e reale. Ma quasi tutti i ragazzi del film – come Alfonso – ora sono liberi. «Il messaggio è che la devianza minorile e la fascinazione per i modelli e i miti della criminalità provocano sofferenza. Come dimostrano le storie raccontate. Ma è anche vero – spiega Roberto Di Bella, oggi presidente del Tribunale dei minorenni di Catania – , che non esistono vite segnate per sempre. Si può riscattare la condizione di svantaggio e scegliere una vita libera. Lo Stato può offrire queste occasioni e alimentare speranze laddove sembra non possano esserci».

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