Lunedì 23 Dicembre 2024

Il docufilm della reggina Sophia Luvarà: eccola, la "Parola d'onore"

Alcuni dei protagonisti nella locandina del lungometraggio

In un piccolo luogo di frontiera, il Tribunale dei Minorenni di Reggio Calabria, crocevia di sofferenze e di speranze, cinque giovani, Pierpaolo, Simone, Bader, Reda e Alfonso, che hanno incontrato la ‘ndrangheta, sperimentano una strada alternativa alla criminalità, sotto la guida del presidente Roberto Di Bella. Parla di questo il documentario “Parola d’Onore” – oggetto tra l’altro del progetto “Liberi di Scegliere” – , che sarà trasmesso da RaiUno stasera alle ore 23.50, all’interno dello spazio settimanale di approfondimento Speciale Tg1. Il film è una coproduzione Olanda-Italia (è stato trasmesso sul canale NTR) ed è stato supervisionato e patrocinato dal Ministero Giustizia- Dipartimento Giustizia Minorile. Ha avuto la prima internazionale al Biografilm International film festival – in gara come miglior documentario – e sarà proiettato anche al Thessaloniki international film festival. In cantiere c’è anche la possibilità che venga acquistato da televisioni straniere. Riconoscimenti che rendono merito alla scommessa della sua regista: la reggina Sophia Luvarà, al suo secondo lungometraggio, tornata nella sua terra, dopo una lunga assenza (dopo una laurea scientifica e un dottorato di ricerca ha vissuto a lungo a Londra, dove ha scoperto la passione per il cinema e realizzato il fortunato docu “Inside the Chinese Closet” sull’omosessualità nella Cina rurale), per affrontare la complessa e delicata realtà della ‘ndrangheta. E lo ha fatto abbattendo ogni barriera e parete, andando sui luoghi che decretano il destino e il futuro dei giovani. A tu per tu con le contraddizioni, le lacerazioni interiori e la sofferenza dei ragazzi provenienti da contesti degradati, ma anche con il grande impegno dei giudici minorili e degli operatori della comunità nell’attività di recupero. Le aule del riscatto e della rieducazione diventano le scene del racconto delle ferite che quella violenza lascia nell’animo: senza sangue, cadaveri o pistole, ma con la forza emotiva e coinvolgente di chi, alla fine del percorso, scopre che nulla è perduto se la scelta è quella coraggiosa di rompere i lacci familiari della ‘ndrangheta. Le storie e le dinamiche sono reali perché la regista entra in tribunale e nella comunità ministeriale di via Marsala, ubicata all’interno del plesso che ospita gli uffici giudiziari minorili reggini. Gira durante le udienze (per quasi due anni) e riprende il lavoro dei giudici e la vita dei ragazzi (tutti imputati in procedimenti penali), in comunità e non solo. E se non tutti provengono da contesti di criminalità organizzata, certamente le radici di Alfonso sono quelle di una famiglia che annovera detenuti per associazione ’ndraghetistica. È lui la figura più emblematica. Alfonso, diversamente dagli altri, non è stato in comunità ma in carcere e viene condannato dal presidente Di Bella. Eppure, non gli serba rancore. Anzi cerca il “suo” giudice, che pure lo ha fatto “soffrire” per un confronto; per consigli di vita e per condividere il suo riscatto fuori dalla Calabria. Il finale è aperto e reale. Ma quasi tutti i ragazzi del film – come Alfonso – ora sono liberi. «Il messaggio è che la devianza minorile e la fascinazione per i modelli e i miti della criminalità provocano sofferenza. Come dimostrano le storie raccontate. Ma è anche vero – spiega Roberto Di Bella, oggi presidente del Tribunale dei minorenni di Catania – , che non esistono vite segnate per sempre. Si può riscattare la condizione di svantaggio e scegliere una vita libera. Lo Stato può offrire queste occasioni e alimentare speranze laddove sembra non possano esserci».

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