Ambulanti, vagabondi e lavoratori stagionali ci sono sempre stati. «Ma nel nuovo millennio sta emergendo un nuovo tipo di tribù errante». Si tratta di persone che, travolte dalle spese fisse e dalle tasse, si mettono in viaggio, lasciano le proprie case, comprano camper di seconda mano – o pickup, furgoni, roulotte – e cercano una nuova via per sopravvivere. «Qualcuno li chiama senzatetto». In realtà, questi nuovi nomadi hanno sia un mezzo di trasporto che di riparo. «Loro, preferiscono definirsi, molto semplicemente, senza casa». Lo scrive Jessica Bruder, reporter d’inchiesta americana, l’autrice di “Nomadland. Un racconto d’inchiesta” (Clichy, pp. 384, euro 17, traduzione di Giada Daino), il libro da cui è stato l’omonimo film di Chloé Zhao (al cinema e in streaming, su Disney+), interpretato da Frances McDormand, vincitore di tre Premi Oscar (miglior film, miglior regia e migliore attrice), del Leone d’Oro, del Golden Globe, del Toronto Film Festival e del Bafta.
Un trionfo assoluto che racconta e celebra il valore della resistenza, la dignità contro lo spreco, nel Paese più ricco del mondo. Un gioco di contrasti che sconvolge lo spettatore perché lì dove non arrivano le parole giungono le immagini, grazie ad una prova superlativa di Frances McDormand, nei panni della protagonista, la vedova Fern. Sì, ci hanno insegnato a consumare, e chi non può permetterselo viene emarginato dal sistema, diventa un reietto, semplicemente perché è diventato “un consumatore difettoso”. Del resto, quando mancano i soldi per le spese mediche e per la sopravvivenza, anche tutto ciò che è superfluo svanisce di colpo.
Per narrare questo mondo sottosopra, Bruder ha vissuto mesi in un camper, scoprendo la vita degli “americani itineranti”. Lo sappiamo, la crisi del 2008 ha distrutto milioni di vite e se l’inflazione del mercato immobiliare e il tracollo dei mutui è stata ampiamente narrata (“Billions”, “The Company Men”) ma nessuno aveva raccontato il passo successivo. “Nomadland” segue le nuove vite di questi nuovi nomadi che si muovono in lungo e in largo per gli Stati Uniti, in cerca di piccoli lavori stagionali, fra i banchi dei magazzini di Amazon (tramite un apposito programma di reclutamento stagionale, CamperForce, ricorrendo a questa forza lavoro extra nel periodo delle feste, per eseguire il surplus di spedizioni), nei fastfood o come aiuti nei parchi nazionali.
Si tratta spesso di persone che hanno perso il lavoro, hanno fra i 50 e i 65 anni ma sono senza sufficienti contributi per andare in pensione eppure – eccolo il punto cruciale - non hanno gettato la spugna, non hanno smesso di lottare e di pagare le tasse. Dopo tre anni in camper e circa ventimila chilometri lungo le pagine, “Nomadland” ci restituisce il quadro di un’America dall’economia potente che travolge i fragili: un paese senza l’assistenza medica gratuita, che non può dirsi davvero civile. Nessuno dovrebbe dover scegliere fra curarsi un cancro o pagare la benzina, affrontare un’infezione o mettere del cibo in tavola. Eppure accade, oggi, adesso. E così, leggiamo/guardiamo scorrere le storie di uomini e donne che hanno semplicemente smesso di essere schiavi di affitti e mutui, spese fisse e utenze, viaggiando lungo l’America. Hanno rinunciato alle tradizionali “quattro mura”, al sogno della proprietà privata e la prima protagonista di questo reportage (che troviamo anche nel film) è Linda May, una nonna 65enne che si è messa in viaggio, a bordo di un vecchio camper, con il suo cagnolino Coco, decisa a “spezzare le catene”.
Proprio lei racconta: «La prima volta che dormi in macchina nel centro della città ti senti una fallita o una senzatetto: ma ci si abitua a tutto». E ancora, «puoi fare tutto nel modo giusto, proprio come vuole la società e ritrovarti comunque in rovina, da solo e senza un tetto». Ecco cosa c’è di sorprendente in “Nomadland”: a un passo dalla rovina, travolti dalle spese fisse, si profila la possibilità di intraprendere una nuova vita lungo la strada, senza perdere la dignità. Ma quanto coraggio serve per mettersi in viaggio? Riuscite ad immaginare cosa significhi vivere in una roulotte, tutto l’anno?
La cosa incredibile in questa narrazione potente e straniante – oltretutto, è un film sorprendente a livello visivo – è che nessuno sa quanti siano esattamente i nuovi nomadi. Sono «un incubo per i demografi» e nessuno vuole saperlo perché «stanno sopravvivendo all’America». Questo afflato di libertà non è altro che una versione aggiornata di quello spirito pionieristico che diede vita al sogno a stelle e strisce. E allora, cosa c’è dietro l’illusione del grande Sogno Americano?
La regista Chloé Zhao ha tradotto le parole in immagini, la narrazione in fotogrammi, restituendo la potenza di una nuova comunità itinerante che vive di solidarietà reciproca, in cui non si spreca nulla, si ricicla e non si inquina, scegliendo di fare lavori umili che in tanti rifiutano. “Nomadland” è un reportage/film di denuncia e, al contempo, un inno alla vita, senza nessuna retorica.
Caricamento commenti
Commenta la notizia