Potremmo azzardare un “Cùntami, o Diva…” e avremmo sintetizzato, scomodando Omero, il film di Giovanna Taviani, “Cùntami”, dove il mito incontra il contemporaneo. Girato in Sicilia, ha mosso i primi, nobilissimi, passi sul red carpet di Venezia: «E dopo Venezia – spiega la Taviani da giorni alle Eolie, alla guida del suo SalinaDocFest, che si concluderà oggi proprio con la proiezione del film,- la mia creatura uscirà a Roma a settembre e a fine ottobre in tutte le sale. Poi girerà per i festival.
La partecipazione alla Mostra, nelle “Giornate degli autori”, ha rappresentato per me un sogno che si è avverato, il resto lo ha fatto la critica riconoscendo il talento dello sguardo - grazie al lavoro della direttrice della fotografia Clarissa Cappellani – unito a una tecnica sontuosa di regia e una novità nel linguaggio. È un road movie un po’ folle che affronta temi alti, ma anche un po’ pop, riscoprendo il mito e incastrandolo al contemporaneo. Il furgone rosso – quasi un carretto – si muove dentro una favola: il passaggio del timone da mio padre che mi raccontava queste storie da piccola, a Mimmo Cuticchio che insegna ai suoi allievi, Gaspare Balsamo, Vincenzo Pirrotta, Mario Incudine, Giovanni Calcagno, alla fine arriva a me, anche io sono una cuntista, una narratrice.
Durante la costruzione del film ho vissuto prima la malattia e la morte di mio padre, poi quella di mia madre: questo è stato un modo per elaborare il lutto, la perdita perché le storie fanno sentire meno soli. Devo ringraziare due grandissimi artisti come Etta Scollo e Lello Analfino: la prima mi ha regalato una rivisitazione di “Quannu moru” di Rosa Balistreri, il secondo una lettera a mio padre, “Il paradiso è un’altra cosa”, entrando nel mio mondo intimo. Solo dei siciliani potevano farlo».
In questa edizione del SDF ha visto aggirarsi più “Paure, sogni o visioni”?
«Paure, incertezze, anche se quest’anno godiamo di una maggiore sicurezza, rispetto al 2020, e siamo tornati a un’edizione ai livelli pre-Covid, con una calibratura di ospiti internazionali e ben 24 film, grazie all’utilizzo della sala di Santa Marina, sede di una controprogrammazione dedicata a Pasolini. In un’isola turistica per definizione e non abituata al cinema, che la gente si rinchiuda in un cinema è una scommessa, eppure, nonostante sia aumentata l’offerta, il pubblico non si è frammentato ma è cresciuto. Il sogno è la sala convegni di Malfa piena, nel rispetto della normativa, e l’emozione di “avercela fatta”di tanti personaggi dello spettacolo che hanno bisogno delle loro comunità e del pubblico per lavorare».
Che mondo raccontano i documentari di quest’anno?
«Il tempo dell’attesa e dei conti con sé stessi sono i temi che accomunano i lavori, tutti realizzati durante la pandemia. Chiusi nelle nostre case, ci siamo ritrovati soli con noi stessi, abbiamo riaperto cassetti chiusi da anni, ritrovato foto del nostro passato impolverato: è quel che fa Rocco Di Mento, ricostruendo l’abbaglio dell’amore dei nonni in “The blunder of love”. Abbiamo fatto i conti con una nuova idea di tempo rallentato, protagonista di “L’Île des Perdus” di Laura Lamanda, girato nell’ufficio oggetti smarriti di Parigi. Siamo stati a guardare ore e ore in silenzio dalla finestra, come mostra Manuel Coser nel suo “L’incorreggibile”, storia di un uomo che ha vissuto 50 anni in carcere. Ci siamo sentiti reclusi, prigionieri di un “Palazzo”, vero protagonista del documentario di Federica Di Giacomo, con le nostre aspirazioni o velleità artistiche che a poco a poco hanno ceduto il passo alla percezione del limite biologico. E poi “Naviganti” di Daniele De Michele, Donpasta, una riflessione per immagini sulla crisi degli artisti dopo la chiusura del Covid. Tutti i registi hanno saputo trasformare un limite in un’opportunità».
Scopri di più nell’edizione digitale
Per leggere tutto acquista il quotidiano o scarica la versione digitale.
Caricamento commenti
Commenta la notizia