Il fatto che si continui a oscillare fra paragoni con Beckett e altri con Pirandello, peraltro ascendenze riconosciute come tali da lui stesso, dimostra come Spiro Scimone abbia una sua autonomia creativa che nel nuovo testo, “Fratellina”, che ha appena debuttato (applauditissimo) nel teatro Fabbricone di Prato, appare sempre più chiara ed evidente, tanto da confermarlo tra i drammaturghi europei più importanti di questo secolo.
Sì, perché questo spettacolo, con la regia del “gemello” Francesco Sframeli, con ambedue gli artisti messinesi in scena e prodotto dalla loro compagnia insieme con il Teatro Metastasio di Prato, è opera di straordinaria maturità e complessità. Per quanto possa essere breve – non raggiunge i 50 minuti – , la messinscena è intensa e incalzante, senza un solo attimo di allentamento, con testo e regia che si fondono perfettamente, ben assecondati dagli altri interpreti Gianluca Cesale e Giulia Weber (allineati nella tipica cadenza, fatta di iterazioni e di toni uniformi, che caratterizza un particolarissimo e raffinato stile).
Mai come questa volta, a raccontare di “Fratellina” scatta l’esigenza di citare questa o quella frase (impossibile in una recensione), quasi tutto in verità, tanto i dialoghi sono pregnanti e rappresentativi della nostra società, dove sentimenti ed emozioni sono stati divelti da una progressiva “disanimazione”, prigionieri come siamo di “rappresentazioni” che sostituiscono la vera vita. Così l’efficace e scarna scena di Lino Fiorito, attraverso un luogo-nonluogo e due coppie di letti a castello dà una perfetta idea di una reclusione (o emarginazione) delle persone o meglio delle loro anime, dal cui orizzonte sembra essere sparita la possibilità non solo di (ri)vedere la luce del sole, ma anche quella di un contatto fisico, fatto di abbracci, importanti non meno delle parole.
Così è subito chiaro che il titolo, “Fratellina”, non è una polemica di genere, semmai un’unione di generi: la sua radice è fraternità, parola oggi disapplicata nei fatti. Eppure i personaggi (Nic e Nac da una parte, Fratellino e Sorellina dall’altra), quando una sveglia calata dall’alto li richiama al nuovo “nongiorno”, come prima azione si mettono le scarpe (ciabatte colorate, da interno e da esterno; costumi di Sandra Cardini), a dimostrare un’esigenza di vita ancora non spenta. Perché «se di noi non si ricorderà nessuno – dice Nic – possiamo di nuovo ricominciare». Magari attraverso situazioni estreme ma significative.
Nac vuol diventare un poveraccio per non essere mai solo: «Perché in giro ci sono tanti poveracci come me». Fratellino e Sorellina non stanno meglio. Il marito di lei, mai chiamato marito ma solo cognato di lui, è stato chiuso in un armadio e così portato via perché accusato «di aiutare gli altri»: dava a tutti i suoi vestiti. Lei sembra rimpiangere più l’armadio, lui il cognato, ma ambedue, come Nic e Nac, sognano manifestazioni d’affetto perdute.
Tante battute che letteralmente sono di nonsenso, ma evocative del senso pieno (ovvero la magia del palcoscenico). Eppure, quell’armadio recuperato, dove è rinchiusa la generosità, diventa per i quattro un luogo, per quanto ristretto e buio, dove l’abbraccio è la normalità quotidiana. Tanto che – i gesti illuminano – senza dimenticare uno squarcio di speranza, lo sfondo scenico, fino ad allora scuro e uniforme, diventa solare e aperto.
Finale consolatorio? No, semmai aperto: nonostante tutto Scimone e Sframeli credono ancora nell’umanità (e nei valori del teatro).
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