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«La via del Ferro» come l’arte può curare lo spirito e il corpo

Il docu del messinese Francesco Cannavà

L’arte come viatico per il corpo e l’anima e il mare con le sue creature un elemento che salva indicando lo sbocco dal tunnel ne “La Via del Ferro”, ultimo documentario del messinese Francesco Cannavà. Una storia tutta peloritana dal sapore universale, che dopo aver emozionato la platea del 40esimo Torino Film Festival – dove ha concorso nella sezione “Cortometraggi Italiani” -– è tornata in riva allo Stretto, in un’anteprima sold out nella Sala Fasola (Multisala Apollo), alla presenza di regista e cast artistico, moderata dal giornalista Franco Cicero.
Il pubblico ha avuto così la possibilità di conoscere la toccante vicenda umana e artistica di Fabio Pilato, imprenditore edile diventato maestro forgiatore e scultore oggi assai apprezzato di opere in ferro. Un talento artistico che il protagonista scopre nel 2006, quando gli viene diagnosticato un linfoma non Hodgkin.
Segnato, ma non schiacciato, dagli effetti collaterali della chemioterapia, una notte l’uomo decide di prendere la sua piccola barca, ormeggiata sulla spiaggia di Torre Faro (la punta messinese della Sicilia, e il punto più “stretto” dello Stretto), e fra le onde percepisce un’energia nuova che per qualche ora allontana il dolore. Tornato a terra, osserva sui banchi dei pescatori i pesci, provando una forte empatia verso quelle creature marine che gli avevano dato grande sollievo fisico e spirituale. Realizza così d’istinto una scultura di pesce in pietra. Da quel momento non ha più smesso di immortalare, ma, abbandonata la pietra, col ferro gli abitanti del mare dello Stretto (polipi, cernie, pescispada, cavallucci marini, squali), rendendo l’elemento materiale simbolo di benessere spirituale e fisico.
Una vicenda coerente con la tematica del “corpo” che Cannavà – autore del soggetto con Christian Bisceglia e al suo primo film ufficiale realizzato a Messina – aveva già sviluppato in “Veneranda Augusta”, “Because of my body” e “Space Beyond”.
«Nella vicenda di Fabio la coincidenza del corpo dell’uomo e dell’artista mi ha consentito di riabbracciare il cinema immersivo – ha detto il regista – che porta la macchina da presa nello spazio del quotidiano e dell’esistenziale, di ciò che il corpo della persona rappresenta come materia e come spirito. Nella storia di Fabio la materia è quella del corpo ma anche del ferro, con cui sono realizzate le sue opere. Nel film si intuisce cosa lo spirito delle creature marine ha insegnato a Fabio e può insegnare a tutti noi. È anche in qualche modo una vicenda zen e sciamanica, con cui l’artista dimostra come sia possibile trasformare il veleno in medicina».
Ideatore del progetto Arturo Morano, produttore con la sua ArtShow e con Renata Giuliano (8 Road Film). «Conoscevo Fabio ma non la sua storia, però mi è bastato chiudere gli occhi e visualizzare il mare dello Stretto per intuire il suo valore salvifico. Da lì l’idea di realizzare il film con una troupe di concittadini che come me conoscono questo mare». Fra i membri della troupe Enrico Bellinghieri (direttore della fotografia), Amitt Darimdur (suono)e Tony Canto, autore della suggestiva colonna sonora: «Le sonorità sono portoghesi, imparentate con quelle siciliane, ma c’è anche l’elettronica, per dare una visione futuristica, di speranza. Il tappeto sonoro è un connubio fra la tradizione della corda, che viene dal mare e dalla vita di Fabio, e la speranza verso il futuro».
Soddisfazione e gratitudine da parte di Pilato: «Cannavà, sensibile e appassionato, è riuscito a cogliere 16 anni della mia vita e inglobarli in soli 22 minuti di film». Girato fra Torre Faro, Scilla, Cariddi e Bagnara, il corto è realizzato in collaborazione con la Fondazione Bonino Pulejo - Gazzetta del Sud e Sicromie e col sostegno della Sicilia Film Commission.

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