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Caro Nanni Moretti, quanti film che ci siamo fatti...

Nanni Moretti

Venghino, siori, venghino, che qui c’è il circo delle meraviglie! Il circo degli elefanti e dei pagliacci, ma anche il circo incantato e ardito degli acrobati: cosa c’è di più simile alla meraviglia con cui guardavamo la realtà da giovani, con cui credevamo alla forza degli ideali, alla possibilità di cambiare il mondo? E un circo è il set che il regista Giovanni sceglie per il suo film. Ma Giovanni è Nanni Moretti, e sì, il circo al cinema è sempre Fellini, nei secoli dei secoli. Come Fellini è il regista che fa un film su un regista che non riesce a fare un film. E riecco Moretti e il suo “Otto e mezzo”, oggi che il circo è sempre mediatico, la forma è diventata piattaforma (in 190 Paesi!) e non solo la realtà non ci obbedisce (e i carri armati continuano a invadere Paesi e gli orsi sono fuorilegge), ma nemmeno la finzione: le attrici si ribellano al copione, i produttori sono bugiardi e dormono di nascosto sul set e un film sulla politica diventa un film d’amore (ma siamo sicuri che siano cose così distanti?)
Ne vengono, di domande, dopo aver visto «Il sol dell’avvenire», ultimo film di Moretti, e tra tutti i personaggi – il giornalista dell’Unità Ennio, prototipo del comunista che crede nella linea del partito come altri nei santi (Silvio Orlando), la fervente militante (omen nomen) Vera (Barbora Bobulova), il produttore francese truffaldino (Mathieu Amalric) e i produttori coreani-macchine da guerra, i sacerdoti di Netflix e lo psicoanalista cialtrone, la figlia musicista e il suo attempato fidanzato – essersi identificati, senza esitazioni, nella moglie di Giovanni, quella Margherita Buy che un poco somiglia a noi spettatori di lungo corso (alcuni fin da «Io sono un autarchico» del 1976), che Moretti l’abbiamo, variamente, amato e ripudiato, esaltato e vituperato, e talora vorremmo dirgli: «Guarda, la nostra storia d’amore è finita, ciao», ma ci pare brutto, non troviamo le parole, ci vergogniamo persino di pensarlo. Tanto, che abbiamo realizzato, in tutti questi anni, che film ci siamo fatti? Dov’è finita la nostra militanza? Cosa abbiamo fatto per cambiare il mondo, o per cambiare almeno il modo di raccontarlo? Dove sono finiti i circhi con gli elefanti, i voli degli acrobati, i compagni che scendono in piazza e contestano e si rifiutano di difendere l’indifendibile? Dove sono finite le nostre storie d’amore? Seppellite in matrimoni silenziosi? Smagliate e distrutte da subito?
Così stavolta Nanni ci ha risposto: forse è colpa mia. Forse dovevo metterci più canzoni, più coraggio. Forse dovevo strappare il manifesto di Stalin, «perché nel mio film Stalin non lo voglio». Forse dovevo cambiare la realtà, perché l’immaginazione lo può fare, lo può fare il cinema (pensa, Nanni, a Tarantino che fa uccidere Hitler in un cinema, con un piano ordito da un’ebrea aiutata da un nero: quella è giustizia poetica).
E allora chissà dov’è, il sol dell’avvenire, probabilmente dietro le nostre spalle, ma noi ora abbiamo cambiato il finale, e camminiamo tutti assieme, con gli elefanti e gli acrobati, i noi di ieri e di sempre, illusi ancora, illusi meglio, con tutte le canzoni che hanno fatto la nostra vita (che sia Aretha Franklin o Noemi non importa), e tutto il cinema che l'ha attraversata, l'ha cambiata. Ciao Nanni, l'ultimo fotogramma sei tu che ci saluti, in mezzo a quel caos amoroso. E sì, forse amore e politica, amore e cinema, cinema e politica sono la stessa cosa, qualche volta.

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