All’inizio era una mela. C’è sempre una mela, all’inizio. Chiedete a Eva, a Newton. A Biancaneve, meglio. Anche perché è una mela avvelenata: uno studente l’ha avvelenata per ripicca e vendetta contro un professore che lo ha umiliato. Lo studente è Robert Oppenheimer, il professore è Patrick Blackett e quello che rischia di mangiarsi la mela è Niels Bohr, uno dei più grandi fisici del Novecento. E, per quanto l’episodio della mela si trovi giusto all’inizio della storia che Cristopher Nolan ci racconta nel film «Oppenheimer», ovvero quando il protagonista è appena uno studente di Cambridge, già c’è tutto, o quasi. Oppenheimer, avvelenatore di mele, distruttore di mondi, che poi si pente di entrambe le cose. D’altronde, tutto il film è così, in puro stile Nolan: circolare, intersecato, con parti che si richiamano, fili che si riannodano, fusioni e fissioni che scompongono e ricompongono il materiale narrativo, qui particolarmente incandescente. Quasi un nucleo radioattivo. Quasi un esperimento quantistico. Ogni film di Nolan è un piccolo «progetto Manhattan», ovvero quel progetto di cui il fisico Oppenheimer – un Cillian Murphy esemplare, totalmente imperscrutabile al nostro sguardo che pure lo coglie vicino, vicinissimo, nei continui primi piani – è capo e nocchiero. E mediatore e portavoce e preside d’uno straordinario pool di scienziati, fisici chimici e matematici, che mette a punto l’arma più spaventosa della storia dell’umanità, la bomba atomica. Di cui vediamo, senza ombra di realismo (chiariamolo subito: il realismo non esiste, in Nolan), il primo test, battezzato “Trinity” da una poesia di John Donne (essì, Oppenheimer è anche appassionato lettore di miti e poesia, perché come tutti i fisici teorici è affascinato dalla tessitura simbolica degli universi...). Qualunque film sarebbe cominciato, o finito, con quel test in mezzo al deserto, la luce che precede il suono, il boato che ti schianta sulla poltroncina, assieme alla consapevolezza che un confine è stato superato, l’atomo si è rotto e il «fuoco celeste» ne è uscito in forma di fungo, e niente sarà più come prima. Qualunque film sarebbe cominciato, o finito, con l’applauso liberatorio che esplode poco dopo la deflagrazione, eppure ti rendi conto solo in quel momento che, invece, Nolan ha attentamente costruito fin lì un anticlimax per cui mentre quella gioia liberatoria si scatena tu, tu spettatore, ti senti come Oppenheimer: annichilito. E più loro applaudono e agitano bandierine a stelle e strisce, più tu ti senti oppresso, pesante, colpevole. E vedi morte dove altri vedono trionfo. Qualunque film sarebbe finito, o cominciato, lì, ma non questo, non il film quantico di Nolan che sembra dirci tutt’altro. Dopotutto, la fisica è questione di paradossi, la luce è onde e particelle assieme, come noi esseri umani, che siamo assieme spietati e pietosi, stupidi e geniali, capaci di vette d’intelligenza altruista e di abissi d’idiozia autolesionista. Che siamo scienziati che inventano e scoprono e militari e burocrati che usano invenzioni e scoperte per il male del mondo. Che siamo, assieme, Robert Oppenheimer e Lewis Strauss (uno straordinario Robert Downey jr., perfetto interprete di quella mediocrità vanesia e avida che rende certi politici più pericolosi di una Bomba H), colui che fu autore della campagna di discredito che portò all’estromissione di Oppenheimer – a causa di sue antiche simpatie comuniste e di suoi umanissimi dubbi sulla legittimità di usare armi così distruttive – dai laboratori governativi che aveva diretto e dalle informazioni su ciò che lui stesso aveva realizzato. In realtà, gran parte del film consiste in dialoghi stralciati dalle interminabili audizioni del quasi-processo farsa che doveva decapitare Oppenheimer (con qualche momento visionario, magari quello sì un poco forzato, pur se si tratta della “soggettiva” di Oppenheimer, e non c’è niente di più quantistico dell’inconscio che infiltra le percezioni, e di Nolan che vuole mostrarcelo), e poi dell’udienza al Senato per la nomina di Strauss a Segretario del Commercio, dove si svela – per bocca di Rami Malek che interpreta il fisico David Hill – il suo ruolo maligno nella caduta di Oppenheimer. E giustizia viene, tardivamente, fatta. Sicché quello che ci viene da pensare, alla fine, è che l’arma letale vera siamo sempre noi uomini, e la politica quando diventa teatro d’inganno e gestione spregiudicata del potere: le maschere del presidente Harry S. Truman (un eccelso Gary Oldman), dei membri della commissione, del generale Leslie Groves (Matt Damon), del militare comunistofobo Boris Pash (Casey Affleck) dicono tutto, e ripugnano ben bene (tutti interpreti diretti magnificamente e in stato di grazia, anche per parti brevi o brevissime, comprese Emily Blunt, la moglie di Oppenheimer, e l’amante Florence Pugh, le cui scene di nudo sono l’affiorare della pulsione freudiana, altra grande protagonista del Novecento). A questo mondo vischioso si oppone la libera comunità degli scienziati, da Einstein (Tom Conti) a Fermi (Danny Deferrari), a Bohr (Kenneth Branagh), a Heisenberg (Matthias Schweighöfer): ci fu un momento, proprio nel Novecento, in cui nello stesso mondo funestato dalle guerre le menti più brillanti lavoravano senza distinzioni di nazionalità, senza fronti contrapposti e confini, nell’unica patria della Scienza. Ma nel film vediamo come la politica sia la vera fissione nucleare, la reazione a catena capace d’incendiare l’atmosfera. Come le scorie tossiche siano l’ambizione, il tornaconto, il pregiudizio, il potere. E, con chiarezza, come i soli dubbi etici siano quelli che attraversano gli occhi indecifrabili di Oppenheimer; giammai quelli, fin troppo decifrabili, di generali, senatori e presidenti. Sicché vale quella definizione che poi è il titolo (inglese) della biografia, premio Pulitzer, di Kai Bird e Martin J. Sherwin a cui è ispirato il film: «Un Prometeo americano». Non solo perché Prometeo ruba il fuoco agli dei e lo dona agli uomini, quanto perché poi viene punito per sempre. In questo caso, proprio dagli uomini a cui lo aveva donato. E qui ci sovviene il finale della poesia «Bomba» di Gregory Corso, scritta nel 1958: «Eppure non basta dire che una bomba cadrà/ sia pure sostenere che il fuoco celeste uscirà /Sappiate che la terra madonnerà in grembo la Bomba/ che nel cuore degli uomini a venire altre bombe nasceranno/ bombe da magistratura avvolte in ermellino tutto bello/ e si pianteranno sedute sui ringhiosi imperi della terra/ feroci con baffi d'oro». Ecco, è nel cuore degli uomini la fissione, la fusione, la liberazione di forze spaventose. E, forse, talvolta, nel cinema.