Martedì 24 Dicembre 2024

"Io Capitano": venite, ribaltiamo il nostro sguardo! A colloquio col regista Matteo Garrone

Non dice mai «io», sempre «noi». E quando gli scappa «ho» subito corregge: «Abbiamo». Matteo Garrone sottolinea più volte la natura corale del suo bellissimo film, «Io Capitano», Leone d'argento a Venezia (dove il protagonista Seydou Sarr ha anche vinto il Premio Marcello Mastroianni per i giovani attori emergenti), candidato dell’Italia alla cinquina per l’Oscar al miglior film internazionale. Un film scritto (con Massimo Ceccherini, Massimo Gaudioso e Andrea Tagliaferri) a partire da tante storie tutte vere, che sta girando per tutta l’Italia – e giovedì il regista ne parlerà in un doppio incontro con gli spettatori di Messina (sarà alla Multisala Iris alle ore 17.15 e alle 18.15 alla Multisala Apollo, dove l’incontro con il pubblico, organizzato assieme all’Associazione Spazio Arte, sarà introdotto da Loredana Polizzi. Successivamente Garrone sarà presente anche al Cinema Ariston di Catania alle ore 20.30, al termine della proiezione delle 18.30). Un film dove le due “linee” della produzione di Garrone, il racconto della realtà più cruda e la favola (che pure ha un cuore nero di paura, di trauma da superare, di pericolo da scongiurare), s’intrecciano nell’ “odissea” (qui intesa nel suo senso più antico: viaggio d’avventura, pieno di mostri, certo, ma anche di conoscenza di sé e del mondo) di Seydou e Moussa, giovanissimi senegalesi che decidono di fare la cosa più pericolosa dei nostri tempi: il lungo viaggio dentro l’Africa per poi poter navigare verso l’Europa, il “paese dei balocchi” (ogni riferimento al “Pinocchio” e alla sua storia di formazione e trasformazione è intensamente voluto). Il tema dei nostri giorni, dei nostri governi. Tema difficile, spinoso, che trattare con verità e assieme con arte è difficile, arduo, meraviglioso. Lei lo ha detto chiaramente: in questo film cambia la prospettiva, ribalta il punto di vista, tecnicamente “fa un controcampo” raccontando la prima parte d’un viaggio di cui ci sembra, quassù in Europa, di sapere tutto, ma di cui sappiamo solo cose lontane e teoriche, puri numeri. E scegliendo anche protagonisti che non fuggono da guerra o fame, e non mettendo in scena alcuna tempesta in mare: altrettanti ribaltamenti del consueto, diciamo. Ormai ha incontrato tantissimi spettatori, in giro per l’Italia: la sua visione è condivisa? «Il pubblico è vasto, ampio, trasversale, di ogni età. Ognuno vive emozioni personali che si sposano poi con la storia. Posso dire sicuramente che secondo me la forza del film è proprio nella capacità degli attori, specie Seydou, di riuscire a creare un rapporto d’empatia col pubblico, che rivive l’esperienza del viaggio in prima persona. Il cinema è legato alla possibilità di vivere un’esperienza al di là delle pure “informazioni” (lo sappiamo che si muore in mare o nel deserto): questo film ti fa fare il viaggio, te lo fa vivere. Entri in un rapporto intimo col protagonista e t’identifichi». Lungo il viaggio i protagonisti conosceranno violenza e dolore: tutte le, documentate, tappe della filiera del male che sono i viaggi dei migranti attraverso l'Africa. La bellezza di cose come la compassione, la cura dell’altro, la solidarietà, la responsabilità (tutta la straordinaria sequenza finale – che credo resterà nella storia del cinema) brillano come diamanti. Anche questo è un rovesciamento di prospettiva? «Io la definirei senso di umanità che va al di là, un senso profondo che resiste nonostante tutte le violenze che i personaggi subiscono, ma riuscendo a rimanere umani. C’è in loro un senso di speranza e di luce che rimane, e che io volevo raccontare. È parte dei racconti che ho raccolto, ed esiste, questa grandissima umanità: riuscire anche nei momenti più duri a rimanere umani. È una delle cose che mi ha colpito di più e che ho ammirato di più». Il lavoro di scrittura è stato soprattutto lavoro di ricerca, alla base ci sono tante storie vere. Come si trasforma, al cinema, la verità in narrazione, ma in modo che resti vera? «È un mestiere complicato (sorride). È come dipingere un quadro. Ho cercato di mettere al servizio delle loro storie il mio sguardo, la mia esperienza, attraverso anche la mia sensibilità, non imponendo il mio sguardo occidentale, ma lasciando che fosse la loro voce. Ovviamente con una fusione: l’arte è a mio avviso sempre legata a scambi, a contaminazioni. Io sono entrato nella loro cultura, loro si sono fidati di me e insieme l’abbiamo fatto. È un’opera che si è realizzata con un lavoro collettivo, giorno per giorno, e ognuno di noi ha dato le sue sensazioni: già sul set io guardavo le loro reazioni, loro sono stati per me anche i primi spettatori del film». Lei, correttamente, non è interessato, anzi rifugge da qualsiasi polemica politica, ma è consapevole di trattare una materia incandescente, per il nostro mondo, e il suo sguardo è comunque intensamente etico, attraverso la verità che mette in scena. Che non è la “verità” dell’opera di denuncia, ma è la verità severa e etica della fiaba, semmai. Qual è il suo rapporto, di regista, con la politica e l’etica della narrazione? «Io parlerei di un racconto epico: parte da loro che sono oggi i veri, gli unici portatori di un’epica contemporanea. I loro racconti sono, tra l’altro, grandi romanzi d’avventura, di eroi, e ciò dà a questo film vari piani di lettura. Penso ai tanti giovani che lo vedono, magari arrivandoci pieni di pregiudizi, e invece rimangono colpiti, intanto dal fatto che i protagonisti sono coetanei che vivono un’avventura. Ed ecco che le informazioni arrivano attraverso un racconto avventuroso, non sono tesi preconfezionate o spiegazioni didascaliche. Questo aiuta i giovani a riflettere attraverso un viaggio, un’esperienza dentro una struttura familiare, quella del racconto d’avventura. L’elemento politico ed etico aiuta a capire che non è giusto che nel mondo ci siano ragazzi che per viaggiare devono rischiare la vita. Persone che, come loro, hanno vite sogni famiglie: cose semplici, ma non scontate. Aiutano i giovani a responsabilizzarsi e avere una prospettiva diversa su un tema così drammatico». Parliamo di magia. Qualcuno ha parlato per lei di “neorealismo magico”, per quel modo di stare dentro la tensione etica, e la realtà che preme, ma con momenti di altissima poesia onirica, in un – io direi perfetto – bilanciamento. Ma forse oltre che nelle scene apertamente “magiche” ci sono altre cose: i colori che sbiadiscono via via che i protagonisti s’allontanano dalla loro origine, la natura, il deserto o il mare, sempre vastissima e illimitata, senza confini, la natura invece claustrofobica dei luoghi umani, brulicanti, fittissimi. Lei d’altronde, frequenta la fiaba e la realtà più cruda, creando un suo stile specialissimo (Pinocchio e Gomorra, e qual è il fantasy?): come ha dosato quest’ingrediente, in questa storia, come vorrebbe che arrivasse? «È qualcosa che ha a che fare con sensazioni, intuizioni che hai facendo il film. Cose che accadono sul set. In partenza volevo, volevamo raccontare questa storia con uno stile non solo documentaristico, ma diverso. Quei momenti onirici avevano però anche una ragione drammaturgica, servivano a raccontare le ferite dell’anima del protagonisti. È un viaggio di formazione: Seydou parte ragazzo e arriva uomo, la sua anima viene ferita, e per raccontare cinematograficamente queste ferite abbiamo usato questi “sogni a occhi aperti”. Questa parte sembra alleggerire, ma è estremamente drammatica. Parla dei traumi che ha appena subito». Agli Oscar lei rappresenta l’Italia, ma rappresenterà anche tutte le storie che sono nel film... «I premi servono, a mio avviso, per avvicinare il pubblico al film: questa è la cosa più importante. I due premi di Venezia sono stati importantissimi, poi papa Francesco ci ha voluto in qualche modo accompagnare anche lui: tutte cose che hanno aiutato a far vincere diffidenze e pregiudizi comunque legati a un tema così delicato. Mi auguro che il film continui questo suo viaggio, e vada più avanti possibile. A dicembre uscirà in Senegal e poi in altri paesi africani, e sarà interessante vedere come sarà accolto. Quando vado i giro spesso mi capita che nel pubblico ci siano ragazzi africani e che hanno fatto il viaggio, li chiamo sul palco e li faccio parlare. Mi sento sereno e con la coscienza a posto: li abbiamo fatti parlare».

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