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«L’ultima volta che siamo stati bambini» di Bisio: la bellezza dell’amicizia nell’orrore della Shoah

Oggi sarà proiettato al Cinema De Seta di Palermo, nella seconda delle tre Giornate del Cinema per la Scuola, con un ricco programma di iniziative, tra cui i laboratori collaterali di Anec Lab Educational, promossi al Cityplex Tiffany

Una delle più grandi tragedie della Storia riletta attraverso lo sguardo disincantato dei bambini in una vicenda fra dramma e commedia che ricorda per tematica e prospettiva “La vita è bella” di Roberto Benigni. Claudio Bisio debutta alla regia con «L’ultima volta che siamo stati bambini», adattamento dell’omonimo romanzo di Fabio Bartolomei (Edizioni e/o), in sala con Medusa.

Realizzato ad 80 anni dal rastrellamento del Ghetto di Roma (il 16 ottobre 1943), titolo d’apertura dell’ultimo Giffoni, il film è stato il più visto del weekend con oltre 66 mila presenze e un incasso totale di mezzo milione di euro. Oggi sarà proiettato al Cinema De Seta di Palermo, nella seconda delle tre Giornate del Cinema per la Scuola, con un ricco programma di iniziative, tra cui i laboratori collaterali di Anec Lab Educational, promossi al Cityplex Tiffany. Dopo la proiezione Bisio incontrerà docenti e dirigenti delle scuole per un confronto sulla vicenda narrata, quella di quattro bambini romani che giocano alla guerra nell’estate del 1943, mentre attorno esplodono le bombe del conflitto vero. Sono Italo (Vincenzo Sebastiani), il ricco figlio del Federale (lo stesso Bisio), Cosimo (Alessio Di Domenicantonio) con il papà al confino, Vanda (Carlotta De Leonardis), una bimba orfana, e Riccardo (Lorenzo McGovern Zaini), di un'agiata famiglia ebrea. Il 16 ottobre quest'ultimo verrà portato via dal Ghetto, e gli altri tre amici decideranno di partire in segreto per convincere i tedeschi a liberarlo.

«Ieri abbiamo fatto a Roma, con la Comunità Ebraica e il sindaco Gualtieri, una proiezione per le scuole ed è stato un successo – ci dice Bisio – . Non l’ho pensato come film per le scuole, ma gli insegnanti hanno detto che ne avrebbero parlato in classe perché è un film leggero, si ride, si sorride ma non fa dimenticare l’ambientazione nel periodo della guerra e della Shoah».

Libro e film si ricollegano a quel filone che racconta l’Olocausto dal punto di vista dei bambini, da “La vita è bella” di Benigni a “Il bambino con il pigiama a righe” di Mark Herman, o “Jojo Rabbit”. Tu e il co-sceneggiatore Fabio Bonifacci avete preso ispirazione da titoli del genere nell’adattare il romanzo di Bartolomei?
«Citerei anche “Un sacchetto di biglie” e cult come “La guerra dei bottoni”, “I Goonies” e “Stand by me”, che non hanno nulla a che fare con la Shoah ma sono film d’avventura con protagonisti ragazzini. C’è anche quell’universo in questo film, ma il filone sull’Olocausto è preponderante e i film di Benigni ed Herman sono stati i nostri fari».

Come nel film di Benigni, si ribadisce l’indicibilità dell’orrore dell’Olocausto, lasciato sullo sfondo a favore della dimensione del gioco. Quanto l’immaginazione e la fantasia possono superare la realtà, e sovrastare il male reale?
«Possono aiutare tanto. Libro e sceneggiatura sono stati scritti prima della guerra in Ucraina, ma quando lo abbiamo girato il conflitto era già scoppiato: la Russia aveva già invaso l’Ucraina, per non parlare di quanto sta accadendo in Medio Oriente in questi giorni. Un film non può risolvere problemi più grandi di noi, ma può far riflettere. Attraverso il gioco dei bambini, la loro ingenuità fa vedere anche a noi adulti come loro hanno vissuto tragedie enormi come la guerra. Il titolo del film è perfetto perché questi bambini sono piccoli all’inizio del film, protagonisti di un viaggio di tre giorni per salvare il loro amichetto ebreo. Alla fine del viaggio non lo saranno più, e guardare attraverso i loro occhi è un modo per andare a fondo nella storia e insegnare qualcosa agli adulti».

Quindi gli adulti potrebbero imparare dai più giovani, anche rispetto a grandi temi come l’amicizia, o adottare uno sguardo più fresco, più libero?
«Assolutamente sì. Non è un film ideologico, a tesi, ma sull’amicizia, che tra bambini è più facile vivere che non fra adulti e vince su tutto. Se in queste ore anche noi adulti trovassimo un po’ il fanciullo che c’è in noi qualcosa accadrebbe. So che ci sono delle iniziative molto belle che stanno facendo in Medio Oriente, come quella di far incontrare persone che hanno avuto lutti da una e dall’altra parte, per conoscere il nemico anche attraverso il dolore e stabilire un’amicizia. Nel film i ragazzi saldano la loro amicizia attraverso un patto non “di sangue”, perché hanno paura del sangue, ma di “sputo”, che ha lo stesso valore, se non addirittura maggiore. Per loro quel patto è più importante di qualsiasi cosa, è per la vita. Solo dei bambini possono immaginare che per un “patto di sputo” valga la pena di rischiare la vita per un amico».

Foto di Paolo Ciriello

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