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È morto il regista Otar Iosseliani, la poesia fatta immagine

Aveva 89 anni ed è rimasto vittima della censura sovietica

epa04878201 Georgian-French director Otar Iosseliani poses during a photocall for his movie 'Chant d hiver' at the 68th Locarno International Film Festival, in Locarno, Switzerland, 09 August 2015. The festival runs from 05 to 15 August. EPA/URS FLUEELER

Arriva dal suo paese natale, la Georgia, rilanciata dalla «Pravda», ma in realtà comunicata da un amico su Telegram, la notizia che all’età di 89 anni si è spento Otar Iosseliani, una delle più grandi voci della poesia fatta immagine, un regista che il mondo del cinema venerava come uno dei suoi più grandi maestri. Non è in verità notizia inattesa perché da anni la salute malferma di Iosseliani ne aveva limitato l’attività e i contatti col mondo, specie dopo la scomparsa un anno fa dell’amatissima compagna (e sua produttrice) Martine Marignac. Ma si tratta comunque di una perdita dolorosa specie per tutti coloro che non ne conoscevano la calda umanità, la visione acuta del mondo, l’afflato di libertà - a lungo censurata - che percorre ogni sequenza dei suoi film. Nato a Tbilisi in Georgia il 2 febbraio 1934, appassionato di matematica fin da piccolo, ne aveva trovato la forma espressiva nella musica, intesa come arte dell’armonia capace di regolare il mondo e le emozioni secondo rigidi principi compositivi. Sostenuto dai genitori, si iscrive al conservatorio conseguendo il diploma in pianoforte, composizione e direzione d’orchestra.

Nell’Unione Sovietica degli anni '60 il centro di gravità della cultura e dell’innovazione è Mosca ed è qui che Otar si sposta per studiare matematica all’università: la abbandona però per la scuola di regia VCIK dove si laurea nel 1961. Ha già alle spalle un pugno di cortometraggi, realizzati prima da autodidatta e poi come saggi scolastici, ma la censura si abbatte sul suo primo vero lavoro ("Aprile», 1961) e per lo scoramento lascerà per anni la sua passione, lavorando come operaio e poi sulle navi da carico. Nel 1965, a sorpresa, ottiene i fondi per il primo lungometraggio e il suo «La caduta delle foglie» (1966) vince il premio della critica al festival di Cannes. Improvvisamente anche in patria si accorgono di lui e gli viene concessa una seconda opportunità: nel 1970 con «C'era una volta un merlo canterino» torna a Cannes e si conquista lo status di voce potente e originale in cui gli elementi costitutivi del suo cinema (la natura, la poesia, il caso, la solitudine) si coniugano con una visione elegiaca della sua terra. Sul successivo «Pastorale» (1975) si abbatte nuovamente la scure della censura perché l’opera non viene considerata allineata all’estetica sovietica e il film scomparirà per anni negli archivi, risultando invisibile nonostante gli sforzi della critica internazionale, sensibile al suo isolamento umano e politico. Otar decide allora un doloroso strappo dalle sue radici, emigra in Francia, chiede la nuova cittadinanza. Ma già nel primo gruppo delle sue opere - tra le più ispirate - è facile percepire una rigorosa idea del cinema che bandisce ogni forma di psicologismo, rifiuta il primo piano visto come intrusione nei sentimenti privati delle persone, disegna la "forma" dell’immagine come calcolo matematico in cui specchiare una visione del mondo. «

Mi ispiro al terzo principio della termodinamica - ha detto - secondo cui la natura tende inesorabilmente al disordine, guidata dall’attrazione dell’entropia che genera il caso, l’irregolarità e, alla fine, la dissoluzione. Questo in natura avviene secondo mutamenti lentissimi, ma il genere umano ne accelera vorticosamente il movimento, tendendo ad annichilirsi verso il punto zero della sopravvivenza». E una visione pessimistica e dolorosa in cui però il regista-poeta legge luci di speranza nell’accettazione del caso, nella fratellanza degli individui semplici, nei piccoli piaceri, come il vino e la musica, che ci portano a godere del «qui e ora». Incoraggiato dall’aria nuova che avverte intorno a sé a Parigi, Iosseliani si rimette al lavoro grazie al sostegno della televisione e di produttori indipendenti che credono in quel suo cinema errabondo, disegnato su carta prima che con le parole ("la mia vera sceneggiatura è sempre lo storyboard"), finché con la collaborazione del grande sceneggiatore Gerard Brach, si riaffaccia sulla platea internazionale con «I favoriti della luna» nel 1985. La storia di un servizio di piatti che attraversa due secoli, dalla Rivoluzione francese ai giorni nostri, passando di mano in mano secondo una apparente casualità, gli vale il Leone d’argento alla Mostra di Venezia ed è distribuito in tutto il mondo anche grazie alla coproduzione con l’Italia. Qui tornerà nel 1988 con il documentario «Un piccolo monastero in Toscana», mentre già prepara il successivo «Un incendio visto da lontano».

Ormai la sua poetica sorridente e anarchica è un marchio di fabbrica ribadito dal successo di «Caccia alle farfalle» del 1992. Grande bevitore, capace di ironie sommesse e venate da una profonda solitudine, sempre pronto a condividere la sua tavola per memorabili racconti sulla sua Georgia, Iosseliani firmerà in seguito altri sette film tra cui gli incantati «Addio terraferma», «Lunedì mattina» (Orso d’argento alla Berlinale) fino all’ultimo «Chant d’hiver» del 2015. Il suo inconfondibile stile ironico, leggero, raffinato, fa sempre ricorso ad un uso minimalista dei dialoghi e della costruzione narrativa e psicologica, a favore della puntigliosa osservazione dei comportamenti e delle loro conseguenze. Come un maestro di marionette Otar dipanava i fili di protagonisti sempre diversi, spesso attori non professionisti, condotti in vicende che all’apparenza non sono in relazione le une con le altre. E’ uno stile che allo spettatore fa ricordare Tati e Chaplin con cui condivide quella ineffabile magia del sorriso ammantato di malinconica contemplazione delle sfortune dell’essere umano, destinato - magari suo malgrado - a «bere il proprio calice fino in fondo». Nel 2013 il Festival di Locarno gli aveva conferito il Pardo d’onore, mentre i festival di San Sebastian e Buenos Aires gli hanno dedicato, negli anni, l'omaggio di grandi retrospettive. Con lui se ne va certamente una voce potente del cinema georgiano, ma soprattutto la voce universale di un poeta che raccontava la vita come un direttore d’orchestra.

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