Basta like alle foto, occhiate alle dirette, commenti ai post degli amici in orario di lavoro. L'abitudine di distrarsi sui social potrebbe costare caro.
La Cassazione, con una decisione che allarmerà sicuramente milioni di lavoratori-utenti, ha confermato il licenziamento disciplinare di una segretaria part time in uno studio medico, che in 18 mesi si era collegata dal computer del suo ufficio 4.500 volte a Facebook. Il titolare le aveva contate attraverso la cronologia del computer: in generale gli accesi a internet erano stati 6.000, «per durate talora significative».
E questo è bastato come prova del fatto che la segretaria non meritasse più la sua fiducia, tanto da far scattare la sanzione estrema. La sezione Lavoro della Cassazione, nella sentenza 3133, si limita a confermare quanto stabilito dalla Corte d’appello di Brescia - che ha ritenuto la gravità del comportamento in "contrasto con l’etica comune» tanto da incrinare il rapporto - liquidando in poche paginette il ricorso dell’avvocato dell’ex segretaria, che si appellava alla tutela della privacy e alla inammissibilità delle prove.
La donna sosteneva che il licenziamento sarebbe stato deciso in seguito alla richiesta fatta per godere della legge 104 per prendersi cura della madre malata. «La condotta tenuta dalla ricorrente - scriveva il Tribunale di Brescia nella sentenza con cui rigettò il ricorso nel 2016 -, per come emersa sulla base degli elementi acquisiti, integra una violazione degli obblighi di diligenza e buona fede nell’espletamento della prestazione lavorativa da parte della lavoratrice e non può, dunque, ritenersi di per sé legittima. Sempre alla luce del complessivo quadro probatorio deve fondatamente escludersi che la decisione del datore di lavoro di porre fine al rapporto lavorativo sia stata determinata, per contro, dalla presentazione della domanda ex lege 104/92 quale motivo esclusivo del recesso datoriale».
"Il carattere ritorsivo del licenziamento - concludono i giudici - non può neppure essere ipotizzato». Il datore di lavoro aveva portato in tribunale, a supporto delle sue ragioni, la cronologia del computer, per dimostrare i 6.000 accessi alla rete, di cui oltre 4.500 al social network. Il giudice l’ha accettata, nonostante la difesa della donna avesse lamentato l’insufficienza a dimostrare che fosse stata proprio lei ad accedere a Facebook. Sul punto la Cassazione non è entrata nel merito, limitandosi a rilevare che la questione attiene al convincimento del giudice di merito, che ha motivato la decisione col fatto che «gli accessi alla pagina Facebook personale richiedono una password, sicché non dovevano nutrirsi dubbi sulla riferibilità di essi alla ricorrente».
Sarebbe stato interessante sapere cosa pensa la Cassazione quanto alla lamentata violazione della privacy della lavoratrice, ma il caso non viene affrontato. In primo grado il Tribunale di Brescia spiegò che il datore di lavoro si limitò a stampare la cronologia «il che non richiede l’installazione di alcun dispositivo di controllo, né implica la violazione della privacy, trattandosi di dati che vengono registrati da qualsiasi computer».
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