Fu un commando di sicari venuti dalla Sicilia a compiere l'agguato in cui, il 9 agosto del 1991, morì il magistrato della Corte di Cassazione Antonino Scopelliti. Un delitto che suggellò, forse per la prima volta, un patto d'acciaio tra la mafia siciliana e la 'ndrangheta calabrese che acconsentì a che l'omicidio fosse compiuto sul proprio territorio, a Villa San Giovanni. A 28 anni dal delitto, è questo il quadro investigativo che emerge dall'inchiesta riaperta dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo nella quale sono indagati 17 boss siciliani e calabresi, tra i quali la "primula rossa" Matteo Messina Denaro. Sarebbe stato proprio il boss ancora latitante - secondo quanto avrebbe raccontato a Lombardo il pentito catanese Maurizio Avola, "sicario" della famiglia Santapola, che ha confessato un centinaio di omicidi fra cui quello del giornalista Giuseppe Fava - a "presiedere" un summit mafioso svoltosi nella primavera del 1991 a Trapani nel corso del quale fu stretto l'accordo con i calabresi. Del "favore" fatto dalla 'ndrangheta a Cosa nostra - preoccupata per l'esito del maxiprocesso in Cassazione, in cui Scopelliti doveva sostenere l'accusa - si è parlato sin da subito dopo il delitto, tanto che boss del calibro di Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Nitto Santapaola ed i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, finirono sotto processo nel '94 e nel '98 ma furono assolti in via definitiva dall'accusa di avere svolto un ruolo nell'assassinio. E del "favore" ha parlato recentemente anche un altro collaboratore di giustizia, Francesco Onorato, sentito nell'ambito del processo "'ndrangheta stragista". All'epoca, però, si pensava a Cosa nostra come al mandante. Adesso, invece - ha spiegato il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri - "la nuova proiezione investigativa fa ritenere che anche gli esecutori, pur godendo di appoggi della 'ndrangheta locale, siano venuti dalla Sicilia, che anche nella fase esecutiva Cosa nostra abbia svolto un ruolo fondamentale". È così che nel registro degli indagati sono finiti nomi di spicco della mafia siciliana. Oltre a Messina Denaro sono coinvolti i catanesi Marcello D'Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola. Tra gli indagati anche il gotha delle più potenti cosche della 'ndrangheta: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti. De Stefano, per esempio, nel 2018 è stato condannato a 20 anni di reclusione per avere fatto parte della cupola degli "invisibili", legati ad ambienti massonici, che, secondo l'accusa, avrebbero dettato la linea strategica alle cosche sin dagli anni '70 riuscendo a coordinare le operazioni criminali in Italia ed all'estero non solo della 'ndrangheta ma anche delle altre mafie definendo le strategie criminali di massimo livello. A dare un impulso, forse decisivo, alla nuova inchiesta, è stato il pentito Avola che, nell'agosto scorso, permise al Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, alla Squadra mobile di Reggio Calabria e alla Polizia scientifica di Reggio e di Catania, col coordinamento della Dda, di trovare nel catanese il fucile calibro 12 - oltre a cartucce, un borsone e due buste - che sarebbe stato usato nell'agguato. Materiale che sarà oggetto di una perizia tecnica dalla quale potrebbero emergere elementi decisivi per l'inchiesta. Dichiarazioni, quelle di Avola, che i magistrati reggini vagliano con molta attenzione, anche perché, pur collaborando dal 1994 con i pm siciliani, solo recentemente ha parlato del delitto Scopelliti e dell'accordo mafia-'ndrangheta. Che abbia taciuto finora perché dietro quell'accordo c'è qualcosa di inconfessabile che chiama in causa elementi deviati delle istituzioni? Un altro interrogativo al quale cercano di dare una risposta i magistrati reggini.