Ha ammesso per la prima volta le sue responsabilità: quattro omicidi, tre ferimenti e una marea tra rapine e furti. E senza negare il suo «profondo disagio per tutto il male» causato, ha chiesto «scusa» ai famigliari di chi è stato assassinato o gambizzato in nome di quella che un tempo riteneva una «guerra giusta» e che oggi dice esser stata una «follia» che ha «ucciso» il '68.
A quarant'anni di distanza, e dopo oltre 30 di latitanza, Cesare Battisti, l’ex terrorista dei Pac arrestato lo scorso gennaio in Bolivia e ora in cella a Oristano per scontare l'ergastolo, si è assunto le sue responsabilità. Una sorta di confessione "tardiva" fatta in due riprese, tra ieri e l’altro ieri, al responsabile dell’antiterrorismo milanese Alberto Nobili.
Una confessione che ha dato una certezza definitiva a quella pagina di storia già scritta dalla magistratura italiana e che, ha tenuto a precisare il suo difensore, Davide Steccanella, non è stata resa per ottenere «benefici, ma per restituire una immagine giusta del mio assistito, che non è quel mostro che può colpire ancora, come è stato descritto».
Tante le prese di posizione della politica su quello che da più parti è stato definito il «pentimento tardivo» di Battisti, con il ministro dell’Interno, Matteo Salvini che ha chiamato in causa anche chi ha coperto la latitanza: «Mi aspetto chiedano scusa quegli pseudointellettuali di sinistra che hanno coperto e difeso questo squallido personaggio».
Per nove ore Battisti, in una sala del carcere, con a fianco il legale, ha ripercorso la sua storia criminale, precisando però che in tutti questi anni trascorsi da latitante in Francia, Messico e Brasile, «non ho avuto alcuna copertura occulta», ma confidando sulle sue dichiarazioni di innocenza, ha ottenuto «l'appoggio di esponenti dell’estrema sinistra», compreso l’ex presidente Lula, e ha pure lavorato per mantenersi (sta per pubblicare un altro "giallo" all’estero). Il suo non è stato un pentimento, perché non ha chiamato in causa altri, ma una «revisione critica», ha spiegato Nobili, che lo ha portato a rinnegare una «guerra civile e insurrezione armata contro lo Stato», in cui «allora - sono le parole dell’ex Pac - ci credevo come tanti altri».
Ha rimesso insieme quella scia di sangue che risale alla fine degli anni Settanta, partendo dai quattro delitti, di cui due materialmente commessi: quello del maresciallo di Polizia Penitenziaria Antonio Santoro, da lui ucciso a Udine il 6 giugno 1978 in quanto «perseguitava i detenuti politici»; quelli del gioielliere Pierluigi Torregiani (non era presente) e del commerciante Lino Sabbadin, che militava nel Msi (ha fatto da copertura), uccisi entrambi il 16 febbraio 1979 il primo a Milano e il secondo a Mestre, «perché si erano armati contro i rapinatori - ha aggiunto Nobili, citando passaggi dell’interrogatorio - quindi erano miliziani che si schierarono dalla parte dello Stato e andavano puniti». Infine, quello dell’agente della Digos Andrea Campagna, al quale ha sparato a Milano il 19 aprile 1978.
L’ex terrorista dei Pac ha parlato, oltre che della varie rapine per finanziare il gruppo eversivo, di tre ferimenti (di
uno è stato l’esecutore). Ad essere «gambizzati» sono stati Giorgio Rossanigo, un medico del carcere di Novara «troppo severo nei confronti dei detenuti politici», Diego Fava, medico dell’Alfa Romeo che «non rilasciava facilmente certificati ai lavoratori politicizzati», e Antonio Nigro, guardia nel carcere di Verona.
Riguardando indietro, Battisti ha fatto «una scelta di campo per liberarsi del suo passato», tant'è che ha riconosciuto come «la lotta armata» abbia «impedito lo sviluppo di una rivoluzione culturale, sociale e politica nata dal '68: lo ha ucciso».
Le sue parole a verbale sono state «una sorta di "onore delle armi" per chi lo ha inquisito» e per le «istituzioni e le forze di polizia che hanno debellato il terrorismo con il codice in mano, nel rispetto delle regole». Insomma, come ha sintetizzato il procuratore di Milano Francesco Greco, «fanno giustizia di tante polemiche che ci sono state in questi anni, rendono onore alle forze dell’ordine e alla magistratura di Milano».
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