Un clan di stampo mafioso che operava sul litorale a sud di Roma, fra Pomezia e Torvaianica. Un’organizzazione su base familiare che poteva contare sull'appoggio di un «anziano boss di cosa nostra» che fungeva da mediatore per mantenere gli equilibri con gli altri gruppi criminali. Maxi operazione dei carabinieri del Ros, coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma, contro il cosiddetto 'clan Fragalà'.
Trentuno gli arresti fra Roma e Catania. Tra loro, oltre all’ex presidente di Confcommercio di Pomezia Astrid Fragalà, c'è anche l’83enne Francesco D’Agati, considerato anziano boss mafioso di cosa nostra, in passato a capo del mandamento di Villabate e braccio destro di Pippo Calò, accusato in questa indagine di concorso esterno nell’associazione mafiosa.
«Un pezzo grosso... Ù zio Ciccio è quello che oggi rappresenta la mafia qua a Roma», veniva definito in una conversazione intercettata. Per gli inquirenti, avrebbe avuto un ruolo di mediatore per mantenere la «pax» tra il clan Fragalà e gli altri gruppi criminali. Ricostruito in due anni di indagini, anche sulla base delle dichiarazioni di un pentito, l’organigramma del sodalizio e una serie di episodi criminali e contatti.
Ai vertici dell’organizzazione sono stati individuati Alessandro Fragalà, di 61 anni, il nipote Salvatore e Santo D’Agata che sarebbero stati in costante contatto con gli ambienti mafiosi catanesi sia per la gestione dei traffici illeciti sia per reclutare manodopera criminale. I Fragalà avrebbero stipulato un patto «federativo» con i Fasciani, i Senese e soprattutto con una componente dei Casalesi con cui in passato avrebbero condiviso risorse economiche e armi.
«Con la pace c'è il benessere, con la guerra solo carcere e povertà» sarebbe stata la loro teoria, anche se in realtà era solo di facciata. Gli inquirenti hanno ricostruito episodi di intimidazioni, attentati, minacce e vendette soprattutto nei confronti di imprenditori e commercianti del litorale romano. «Qua se c'è qualcuno che comanda sono i Fragalà e basta» e ancora «Ti do un consiglio, non aprire la pasticceria! È meglio per te. O ci dai le chiavi oppure puoi aprire però sappi che all’indomani tutto quello che ti succede siamo noialtri», sono alcune delle frasi intercettate che sottolineano il modus operandi dell’organizzazione. I capi non esitavano a tirare in ballo anche i propri figli.
«Quando mi sento tradito da qualcuno, che potrebbe anche essere mio padre o mio figlio, io gli sparo», dice spietato Alessandro Fragalà in una conversazione intercettata. Sventato anche un sequestro di persona nei confronti di un esponente del clan catanese scattato per una controversia su una partita di droga da circa 130mila euro, che portò all’arresto di 8 persone. Nel corso delle indagini sono stati sequestrati armi, droga e una formula manoscritta di affiliazione mafiosa, ovvero una sorta di giuramento.
Tra gli arrestati anche tre donne fra cui Astrid Fragalà, ex presidente di Confcommercio di Pomezia, ora ai domiciliari. Per gli inquirenti avrebbe svolto un ruolo di «cerniera» tra il padre Alessandro ed «esponenti della politica e dell’economia» di Pomezia. Contatti, anche con alcuni consiglieri comunali che sono estranei all’indagine, «finalizzati al condizionamento dell’amministrazione comunale».
E sempre oggi i carabinieri di Frosinone hanno eseguito otto misure cautelari anche nei confronti di appartenenti alla famiglia Spada accusati, a vario titolo, di traffico di droga, spaccio ed estorsioni. Dalle indagini è emerso che gli arrestati gestivano lo spaccio di cocaina e mettevano a segno estorsioni con metodi tipicamente mafiosi, utilizzando anche il 'peso' del loro nome e della parentela con i Casamonica.
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