L'ora d'aria. In un supercarcere blindato, quello de L'Aquila, destinato ad ospitare i detenuti più pericolosi, quelli affidati alle "cure" del 41 bis. A passeggio ci sono loro: un mafioso di rango, membro della direzione strategica della cosa nostra stragista guidata da Totò Riina e poi da Leoluca Bagarella: è Filippo Graviano, padrino del quartiere Brancaccio di Palermo e già condannato per i sanguinosi attentati del '92 e '93 oltre che ritenuto responsabile dell'omicidio del parroco antimafia del quartiere palermitano, Pino Puglisi.
L'altro è uno 'ndranghetista di Corigliano Rossano, un boss con il piglio dell'imprenditore condannato con sentenza definitiva per associazione mafiosa e giudicato nel 2013 per l'omicidio del padre di un pentito e per l'agguato costato la vita a un vecchio malavitoso delle cosche della Sibaritide e del suo guardaspalle: si chiama Maurizio Barilari.
Graviano e il compare calabrese parlano, parlano, parlano... E gli "specialisti" del Gom (Gruppo operativo mobile) della polizia penitenziaria ascoltano tutto, pure i loro sospiri. È l'11 maggio scorso: "Quell'uomo... di Giletti e quel... Di Matteo stanno scassando la min..." tuona il boss deposto di Brancaccio. La sera prima aveva visto la trasmissione "Non è l'Arena" di Giletti, che parlava di scarcerazioni e non gli era andata giù. Graviano parla con lo 'ndranghetista che lo ascolta con il "rispetto" dovuto.
"Il ministro fa il suo lavoro e loro rompono i...", dice ancora Graviano. Barilari non è uno qualsiasi: per la Dda di Catanzaro, diretta da Nicola Gratteri, era capo di un sodalizio criminale moderno e spietato che guidava insieme con Pietro Mollo, poi morto suicida proprio nel carcere abruzzese. La cosca controllava capillarmente la propria zona d'influenza imponendo il pagamento del pizzo alle aziende, praticando l'usura nei confronti degli imprenditori in difficoltà, inondando di cocaina il mercato locale, gestendo persino la squadra di calcio dello Schiavonea, iscritta al campionato di prima categoria.
Il pagamento del pizzo era persino "fatturato", nel senso che il clan pretendeva la sponsorizzazione della compagine calcistica rilasciando regolare certificazione del "contributo" ottenuto, oppure costringeva gli imprenditori locali ad avvalersi di ditte di "fiducia" per la realizzazione di lavori edili.
I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano conoscono bene la Calabria. Alla fine degli anni '80 sono stati spesso a Cosenza e in Sila, ospiti dei killer del diretore del carcere di Cosenza, Sergio Cosmai. I due fratelli siciliani ed i sicari Dario e Nicola Notargiacomo e Stefano e Giuseppe Bartolomeo si sono conosciuti nel periodo di comune detenzione patito nel carcere di TRani per ragioni diverse. Tornati in libertà si incontrano e si frequentano: i quattro calabresi verranno persino ospitati in Sicilia durante le guerra di mafia che rischia di vederli soccombere.
Adesso Giuseppe Graviano rischia persino la condanna al'ergastolo insieme con il calabrese Rocco Santo Filippone perché imputato d'essere il mandante di tre attentati compiuti in provincia di Reggio contro pattuglie dei carabinieri. Due militari nel 1994 vennero massacrati, altri due feriti gravemente l'anno prima nel quadro dell'attacco deciso contro lo Stato da cosa nostra e dalla 'ndrangheta. La Calabria ai Graviano non sembra portare bene.
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