Show must go on. Una giovane donna che si prepara per il suo saggio di danza. Un cartello, un foglietto tagliente, di quelli che recidono i sogni più sognati: tutto chiuso all’improvviso, senza preavviso. E la sorellina che coglie, si carica sulle spalle quella delusione e muove l’universo per non negarle il suo spettacolo. Si accende un faro e il palco è lì, per strada. E gli applausi scendono dalle finestre, sotto la neve, sulle punte, tra le piume. E lo spettacolo va avanti, incessante, spinto da una musica che, senza parole, dice il resto della storia. È uno spot, dura un paio di minuti, c’entra tutto un anno. Una pandemia dell’arte questo 2020.
L'anno dell'“aspettatore”
Un anno caro, per il prezzo pagato e per il sentimento investito. Un anno in cui la cultura ha rischiato di rimanere incolta e lo spettatore si è ritrovato “aspettatore”. A tempo indeterminato. Mesi sospesi, appesi, di ipotesi e di antitesi. Prima attesi e poi disattesi. Mesi tesi. Tutti funamboli, sul filo di un “andrà tutto bene” talvolta fatato e altre sfumato.
C’è stato un tempo in cui un concerto con migliaia di persone faceva paura per la fila ai cancelli (i cancelli quando aspettavamo si aprissero, prima che ci imprigionassero, in quella loro antica funzione di tenere lontano il male). In cui il sudore era il conduttore, una ventosa che ci attaccava i corpi in uno solo. Un tempo in cui nelle voci si annidava solo il contagio della musica e squarciarsi la gola a viso scoperto era l’indice per misurare la trasmissibilità delle condivisioni. Preistoria di un’esistenza interminabilmente lontana, di cui si è (quasi) persa la memoria.
Il silenzio ci ha provato, ma la risposta lo ha squarciato, la creatività lo ha assordato. Merito di un Paese intero, capace di affacciarsi alla vita e cantare inni della nostra storia. Che inconsapevolmente raccontavano già di un talento tutto umano, innato quanto immortale. E i balconi sono diventati un prolungamento tra mura e libertà, la scena su cui mostrarsi, una passerella per unirsi, il coro che il mondo ci ha invidiato. E le case, quello spazio privato in cui rientrare, sono divenute il set attraverso cui riuscire. Un'onda d'urto sonora. Orchestre di artisti armati di strumenti d’occasione, che per l’occasione hanno sfondato il muro della privacy pur di consegnarsi senza trucco e senza trucchi al proprio pubblico.
The show must go on
E così, in qualche modo, i concerti hanno continuato a suonare, i dischi, i film hanno ripreso ad uscire. I creativi, incatenati, hanno incantato. Hanno trovato strade inesplorate, soluzioni che mai la “normalità” avrebbe suscitato. E così è sopravvissuta l’urgenza di comunicare. Le pellicole si sono trasferite su piattaforme immateriali, il teatro d’asporto è arrivato perfino a domicilio, tutta la terra che l’ha voluto è salita sulla Scala. Chi se la scorda quella Prima straordinaria, col direttore che dava le spalle ai solisti, volto com’era a dirigere poltrone senza volti. Il rumore che ha fatto Diodato in un’Arena di Verona deserta, tra le sue pietre vuote e pietrificanti. Andrea Bocelli solo al Duomo di Milano, le liriche popolari, le preghiere universali. O Jacopo, un ragazzo qualunque su un terrazzo dovunque, a suonare che lì c’era una volta l’America, con le campane del Cupolone a tenergli il tempo perduto.
Chi se li scorda i film mai visti, quelli che non hanno accettato il compromesso, che si sono messi in fila per aspettare di rivedere la gente in sala. Gli operatori dello spettacolo, gli artigiani che mettono su il miracolo, quando si sono offerti di trasferire le loro professionalità in altri cantieri, armati di curricula e carrucola, per il pane, contro la fame.
Ecco, non scordiamoceli i lavoratori. Quegli operai dell’arte, i costruttori di bellezza a braccia incrociate e mani giunte. Un settore sano, dritto, piegato su se stesso. In ginocchio. Costumisti, scenografi, tecnici di luci, esperti del suono. Attori nel ruolo di “scomparse”, coi copioni a mente e le cineprese spente. Sì, certo, le produzioni imponenti hanno resistito, convertito, mentre altre, impotenti, non hanno reagito. Non hanno potuto. Perché per ogni esperimento ben riuscito, un altro si è fermato.
Suonala ancora Italia
Ma il presente passa e il futuro bussa. Suonala ancora Italia. Dai balconi, dietro ai muri, in quel buio nitido di vene fredde, che danzano dentro stanze dure quanto il marmo, per scorrere lontano. Suonala nonostante tutto, fuori dal dolore, immersa nella speranza. Rappresenta la vita che basta a se stessa, la sopravvivenza che supera lo spavento, la resistenza della bellezza che tinge di tricolore il grigio della paura.
Non dimenticarlo mai, mondo, questo anno resiliente. In cui si è manifestato l’inimmaginabile, nel quale abbiamo scoperto il vaso delle fragilità che spostano l’asse dell’anima, mentre gira e si rigira per ripuntare l’ago. In spazi di aggregazione mai visitati eppure ritrovati.
Mossi da fermi, esposti da chiusi, presenti in assenza. Impersonalmente di persona. Uguali. Come una livella, senza distanze nelle teste e nelle tasche, il paradosso ci ha salvati. La cultura che serve a non servire. «La cultura: l’urlo degli uomini in faccia al loro destino» (Albert Camus).
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