Nella scena cult di "Palombella rossa" Nanni Moretti schiaffeggia la giornalista che aveva messo in fila una raffica di parole contundenti: "Come parla - le urla - come parlaaa, le parole sono importanti". Dopo aggiunge: "Chi parla male pensa male e vive male". Scorre il senso di quello scatto d'ira contro le parole che non argomentano, non raccontano, non spiegano, non colgono l'umanità ma la negano con violenza. Scorre davanti all'assalto dei seguaci di Trump, intossicati dal settarismo delle parole d'ordine, dalla faziosità che inocula veleni nel corpo della democrazia, nei suoi organi più vulnerabili. E scorre davanti alla storia che nelle parole abusate ha trovato il lubrificante delle armi e dell'intolleranza, imprigionando lo spirito critico e l'esercizio del dubbio.
Vale anche per noi la lezione americana (magari fosse quella di Calvino), noi che assorbiamo con indolenza lo stile proditorio, sempre più diffuso a livello politico e istituzionale, dove la parola dovrebbe essere unità di misura della responsabilità etica. Non è l'asprezza il siero velenoso ma il messaggio violento che alimenta il "sonno della ragione". E i mostri sono dietro l'angolo, acquattati nell'esasperazione sociale, nell'ignoranza e nelle frustrazioni che pretendono scorciatoie, nutrendosi di nemici che appartengono alla diversità. Se a questo aggiungiamo la manipolazione mediatica (Noam Chowsky insegna), attraverso parole contagiose che governano il branco, ci rendiamo conto che democrazia e libertà sono minacciate da nemici più subdoli e insidiosi. Il nostro compito non è lasciare che tutto scorra, perché "quando verranno a prendere noi, non ci sarà nessuno a protestare". E allora le parole rappresentano anticorpi indispensabili per arginare la deriva e scuotere le coscienze. Se la storia siamo noi.
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