«Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti ma credibili». La frase ritrovata negli appunti di Rosario Livatino, il giovane magistrato siciliano ucciso in un agguato di mafia, è il manifesto della missione spirituale che dovrebbe rappresentare la bussola di chi indossa la toga nel nome del popolo italiano. E Livatino è un esempio luminoso di questa fede nella credibilità, da lui vissuta con afflato religioso, solco del processo di canonizzazione che il 9 maggio culminerà nella beatificazione. Ora di fronte a un martire della Giustizia, e dopo di lui Falcone e Borsellino, e prima ancora Rocco Chinnici e Gaetano Costa, la Magistratura italiana si dovrebbe interrogare per dare una chiave di lettura al verminaio che covava nelle sue spire. In realtà «nulla di nuovo sotto il sole», perché forse ciò che ieri si muoveva all’ombra del potere giudiziario oggi affiora in una conversazione privata da fotoromanzo. Se non fosse che la Magistratura italiana rischia di sprofondare in un abisso etico destinato a minare la fiducia nella Giustizia. E a nulla valgono le pur comprensibili attenuanti generiche (non si può fare di tutta l’erba un fascio, o le solite mele marce). No, è la degenerazione di un ramificato sistema di equilibri garantiti nel nome dell’appartenenza lobbistica, ben al di là del gioco delle correnti: il comparaggio che mortifica il merito, la trama delle nomine e delle carriere delineata dal “risiko”, di cui fu vittima anche Giovanni Falcone. Certo, va da sé, tanti magistrati si saranno mossi senza fare sgambetti, senza cercare scorciatoie, ma Palamara era solo il bilancino di una rete capillare di dosaggi, riconosciuta e condivisa. Le più rigorose riforme non potranno colmare il vuoto di credibilità. E allora la Magistratura italiana ha il compito di uscire da questo pantano, con la tenacia del mugnaio che alla fine trovò il suo giudice a Berlino. Nel nome della Giustizia.
Il giudice a Berlino della Magistratura italiana
«Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti ma credibili»
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