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Il giudice a Berlino della Magistratura italiana

«Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti ma credibili»

«Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti ma credibili». La frase ritrovata negli appunti di Rosario Livatino, il giovane magistrato siciliano ucciso in un agguato di mafia, è il manifesto della missione spirituale che dovrebbe rappresentare la bussola di chi indossa la toga nel nome del popolo italiano. E Livatino è un esempio luminoso di questa fede nella credibilità, da lui vissuta con afflato religioso, solco del processo di canonizzazione che il 9 maggio culminerà nella beatificazione. Ora di fronte a un  martire della Giustizia, e dopo di lui Falcone e Borsellino, e prima ancora Rocco Chinnici e Gaetano Costa, la Magistratura italiana si dovrebbe interrogare per dare una chiave di lettura al verminaio che covava nelle sue spire. In realtà «nulla di nuovo sotto il sole», perché forse ciò che ieri si muoveva all’ombra del potere giudiziario oggi affiora in una conversazione privata da fotoromanzo. Se non fosse che la Magistratura italiana rischia di sprofondare in un abisso etico destinato a minare la fiducia nella Giustizia. E a nulla valgono le pur comprensibili attenuanti generiche (non si può fare di tutta l’erba un fascio, o le solite mele marce). No, è la degenerazione di un ramificato sistema di equilibri garantiti nel nome dell’appartenenza lobbistica, ben al di là del gioco delle correnti:  il comparaggio che mortifica il merito, la trama delle nomine e delle carriere delineata dal “risiko”, di cui fu vittima anche Giovanni Falcone. Certo, va da sé, tanti magistrati si saranno mossi senza fare sgambetti, senza cercare scorciatoie, ma Palamara era solo il bilancino di una rete capillare di dosaggi, riconosciuta e condivisa. Le più rigorose  riforme non potranno colmare il vuoto di credibilità. E allora la Magistratura italiana ha il compito di uscire da questo pantano, con la tenacia del mugnaio che alla fine trovò il suo giudice a Berlino. Nel nome della Giustizia.

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2 Commenti

Mario.1950

08/02/2021 19:50

Ora bisognerebbe disporre una statua di Rosario Levatino in ogni tribunale non solo per ricordarLo ma soprattutto come Vero Riferimento per ogni magistrato. Venire a sapere che una Ilustrissima Istituzione abbia ostacolato la nomina di un Ministro della Giustizia come il Dott. NICOLA GRATTERI perche' inviso e perche'rompeva gli equilibri di un certo potere che pensava piu'alla carriera che alla Giustizia e'veramente irrazionale e assurdo per il futuro di un Paese che si dice essere patria del diritto.I giovani di oggi,dunque ,pensino a formarsi secondo le idee di questi Magistrati che hanno sacrificato la loro vita e conformino le loro azioni ispirandosi ad esse. Purtroppo gli ultimi trent'anni sono stati devastanti per l'Italia ,le collusioni tra criminalita' e poteri forti delle Istituzioni hanno determinato il fallimento di ogni diritto del cottadino.Percio'SVEGLIATEVI ,l'Europa vi GUARDA.

Domenico Gangemi

08/02/2021 21:38

La dike presuppone doti elevate di odine spirituale e non può essere disgiunta dalla fede dal senso del dovere e dello Stato la fedeltà alla Carta Fondamentale.Le figure luminose di Listino Falcone e Borsellino non possono coprire come un velo la pochezza e la bassissima statura che abita nel terzo potere dello Stato. Dietro il mito del concorso difficile sono entrati in magistratura esseri mediocri e di basso profilo etico e morale afflitti dall'invidia dall'ignoranza e soprattutto dall'ipocrisia. Sono questi i vizi capitali che hanno eliminato le rare figure luminose che hanno contribuito a celare la mediocrità l'arroganza e la violenza che abita nelle istituzioni e ammorba il terzo potere è il tempo di una riforma radicale delle istituzioni e soprattutto del terzo potere dello Stato oltre che delle istituzioni marce e non più credibili.

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