La responsabilità come dovere, l’ignavia come colpa. Sergio Mattarella torna nella sua Palermo e, nel giorno dell’omaggio a Giovanni Falcone e alle vittime di Capaci, tocca due dei nervi più deboli del tessuto, sfibrato, di un Paese in perenne sofferenza: lotta alla mafia e scandali che hanno investito la magistratura. Il tono è quello di sempre, sereno, ma le parole pesano come macigni. «O si sta contro la mafia o si è complici». Togliendo ogni esimente a pallide coscienze civili. Non possono esistere – sembra dire il Presidente – zone grigie non solo nell’impegno contro la mafia, ma nel vivere quotidiano di ciascuno di noi. La “distrazione”, la superficialità, finanche la distanza senza chiara presa di coscienza, diventano «complicità». Un invito a stare in trincea, a scegliere con nettezza, ad evitare comode retrovie. Da qui il monito agli organi dello Stato perché non abbassino la guardia, e il seme innestato in quel fertile terreno sociale che è rappresentato dalle giovani generazioni: la «mafia teme più la scuola della Giustizia». Le afflizioni dell’ordinamento giudiziario, così infestato da veleni rispetto ai quali il “caso Palamara” è solo un paradigma, la punta di un iceberg alla deriva da troppo tempo, rappresentano il secondo capitolo della tappa palermitana del capo dello Stato. «Le contese nella magistratura minano il prestigio della giustizia» e trasferiscono «insicurezza ai cittadini». Se è vero che la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto, la magistratura italiana – non solo per gli inaccettabili tempi di amministrazione della giustizia civile e penale – palesa storture la cui correzione non è più rinviabile. Ecco perché la riforma della giustizia – come scandisce Mattarella – diventa necessaria: «bisogna fare luce sulle ombre». Sulle derive di una casta ingiudicabile se non dal suo interno, per sacrosanta scelta costituzionale, ma dilaniata da logiche correntizie e ideologiche, si gioca tutta la partita degli equilibri istituzionali di questo Paese. Non possiamo consentirci una magistratura delegittimata, ma ancor meno un corpo dello Stato che risponde a dinamiche patogene.