Venerdì 22 Novembre 2024

"Insemprarsi del disìo" con Dante grandissimo maestro di lingua. Parola al prof. Luca Serianni

Che Dante fosse consapevole della potenza della sua lingua è una cosa certa. Poeta immenso, onomaturgo (come lo ha definito il grande linguista Bruno Migliorini) delle parole di cui aveva bisogno, Dante lo ha dimostrato soprattutto nella Commedia, in cui ci fa capire l’importanza della lingua. Il Poeta è stato un importantissimo veicolo di trasmissione dei termini (pensiamo all’espressione fraseologica così comune «che fai, che vuoi tu ch’io dica?» Purg., 23, 97) ed è noto che, ancora lui vivo, i canti circolavano continuamente e venivano mandati a memoria anche dalle persone più umili. Allora, parlare di lingua, parlare di Dante, di cui quest’anno ricorre il 700. anniversario della morte, è un’occasione da non perdere, essenziale per la nostra vita di umani. Ecco perché abbiamo conversato con il linguista e dantista Luca Serianni, professore emerito di Storia della lingua italiana alla Sapienza di Roma, autore di testi sulla lingua italiana e di “Parola di Dante” (il Mulino, 2021), uno studio assai interessante, presentato nell’edizione 2021 di Pordenonelegge, e che apre a nuove prospettive nella conoscenza del mondo linguistico del Poeta. Professor Serianni, nell’anno di Dante il suo libro cosa tira fuori da quell’enorme serbatoio che è il mondo linguistico del poeta? «La lingua, e la poesia, di Dante sono davvero inesauribili. Sembra che sia stato già detto tutto, ma invece emergono sempre nuove prospettive, Del resto non è un caso che Dante sia così radicato nel nostro immaginario e che, all’estero, sia il testo italiano di gran lunga più noto e tradotto». Dunque, il suo lavoro cosa ci vuole restituire di Dante? «Mi sono soffermato sul lessico del poema. Attraverso l’esame ravvicinato di un congruo numero di canti, diviso nelle tre cantiche, ho accertato per esempio che le parole che trovano la loro prima attestazione scritta proprio nella Commedia sono 116: distribuite in misura crescente dall’Inferno al Paradiso, che si conferma come la cantica più ricca e più sperimentale, dal punto di vista linguistico». Professore, lei percorre in varie direzioni il lessico della Commedia. In quale misura le parole di Dante sono ancora le nostre? «Delle 116 parole a cui alludevo prima, 52 sono ancora vive, come cigolare, botolo, mensola, muso, assenso, collega, costellato, gratuito, muffa, tripudio; altrettante sono quelle uscite d’uso, come bronco, ovvero “sterpo”, o dismalare, “purificare dal male”; altre 12 hanno mutato accezione, per esempio parco “lento” o nume “spirito beato”». Lei però, nonostante Dante sia stato un eccezionale onomaturgo, come disse Migliorini, sottolinea che le parole davvero inventate sono rarissime. Allora, perché si dice che Dante ha inventato la lingua italiana? «No, Migliorini aveva ragione. Numericamente, le parole create da Dante sono poche (eccone due, in uno stesso verso: “S’io m’intuassi come tu t’immii” cioè “se io potessi penetrare nella tua mente come tu entri nella mia”), ma è significativo il fatto che, per la prima volta, Dante si sia mostrato così audace nell’invenzione di nuove parole, piegate alla straordinaria esperienza da lui descritta». Quale lavoro filologico e di “spoglio sistematico” sta dietro questo suo lavoro così chiaro per qualunque lettore? «Si trattava, prima di tutto, di riprendere in esame la questione, strettamente filologica, dell’assetto testuale della Commedia, di cui, com’è noto, non abbiamo autografi. Qui non ho fatto alcuna scoperta, ma ho illustrato casi in cui, a seconda della parola accolta a testo, il significato cambia anche radicalmente: per esempio “peccatrici” o “pettatrici” (di cui sarebbe questa l’unica attestazione) “pettinatrici di lino o di canapa”, in Inferno, 14, 80. Quanto allo “spoglio sistematico”, si tratta di uno strumento di lavoro tipico dello storico della lingua, che ama ragionare su dati certi». Ci sono dantismi consapevoli e “dantismi inavvertiti” come il “mi taccio” che imperversa nei vari dibattiti televisivi. Una clausola che è diventata un tormentone, eppure anche le “parole stravolte” sono prova della fortuna di Dante. «Non c’è dubbio. Pensiamo a quanti spezzoni di versi famosi sono entrati nel nostro parlato quotidiano: dalle dolenti note di un ragazzo che studia poco a scuola, al sentirsi tremar le vene e i polsi da parte di chi si sgomenta davanti a una situazione molto difficile. Teniamo anche conto del fatto che un tempo Dante era largamente mandato a memoria, anche da persone umili, al di fuori del circuito dell’istruzione». È molto interessante il capitolo sulle parole che in Dante non ci sono. Eppure quelle parole assenti compaiono qualche decennio dopo nel Decamerone. Come si spiega ciò, se è vero che «la lingua enciclopedica di Dante è in grado di rappresentare tutte le sfumature del reale»? «Nella Commedia mancano parole che indicano minuti aspetti della realtà quotidiana, così presente, invece, nel Decameron: pensiamo ai nomi relativi all’abbigliamento (scaggiale, farsetto) o a nomi di oggetti domestici (bicchiere, fiasco) o a prodotti commestibili quotidiani (cipolla, basilico). Per un certo numero di parole astratte, di cui oggi non sapremmo fare a meno (simpatia, antipatia, identico) si tratta di vocaboli che entrano nella lingua italiana più tardi». Professore, mi dice la parola o le parole di Dante che lei vuole ricordare o che ritiene debbano essere tenute a mente da tutti noi? «Se vogliamo citare una parola coniata da Dante, scelgo “insemprarsi”, ovvero “perpetuarsi”: “se non colà dove gioir s’insempra” di Paradiso 10, 148, in riferimento alla gioia eterna dei beati. Tra le parole che preesistevano a Dante, scelgo invece “disio”, una parola tipica della lirica, che Dante però adopera anche in un canto infernale, forse il più famoso di tutti, quello di Francesca da Rimini: “Quanti dolci pensier, quanto disio / Menò costoro al doloroso passo!” e “Quali colombe dal disio chiamate”».

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