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Che cos'è il traffico di influenze illecite, il reato contestato a Beppe Grillo

Beppe Grillo

Una «mediazione illecita» in cambio di 240 mila euro. E’ un’accusa pesante quella che la Procura milanese muove a Beppe Grillo, indagato per traffico di influenze illecite assieme a Vincenzo Onorato, l’armatore che nel 2018 e 2019 avrebbe versato alla società di comunicazione del fondatore del Movimento Cinque Stelle un compenso di 120 mila euro all’anno per diffondere sul web «contenuti redazionali» per il marchio Moby. Un compenso «apparente», per la magistratura, dietro il quale ci sarebbero state le richieste di muoversi in favore della compagnia di navigazione in difficoltà finanziarie, avanzate dall’imprenditore napoletano e girate dal leader del M5S, via chat, ai «parlamentari in carica" del suo schieramento per «orientare» l’intervento pubblico.

Che cos'è il traffico di influenze illecite

Con "influenze illecite"  si definisce un reato che è presente in molti paesi europei da molti decenni e se ne chiedeva l'inserimento in tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati firmatari della Convenzione europea per la lotta alla corruzione. Tra i giuristi c'è chi contesta le norme in vigore sostenendo che il confine tra questo reato ed il "lobbying" lecito è sarebbe spesso troppo "indeterminato".

In Italia la legge Severino nel 2012 ha introdotto l'art. 346-bis nel codice penale con lo scopo di punire chi svolge attività di intermediazione su pubblici ufficiali con mezzi illeciti. «Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319 ter c.p. - si legge nel testo della norma -  sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere a sé o ad altri denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni».

 

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