Testimone e ambasciatrice di memoria, nel nome del fratello. Ma, nel trentesimo anniversario della strage di Capaci in cui, oltre al giudice Giovanni Falcone, morirono anche sua moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e i poliziotti della scorta Quarto Savona 15, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani, Maria Falcone assicura che la memoria da commemorare sarà quella di tutti i caduti per mano della mafia. Ed è proprio Maria Falcone, 86 anni vissuti con determinazione, che continua a portare avanti L’eredità di un giudice, come recita il titolo del libro scritto per Mondadori con la giornalista Lara Sirignano. Trent’anni spesi perché nessuno dimentichi la lezione di suo fratello Giovanni. Missione fattibile per lei che i valori della legalità, da quel 23 maggio 1992, li ha seminati soprattutto tra gli studenti delle scuole di tutta l’Italia. Ex docente di Diritto, Maria Falcone, in realtà, non è mai andata in pensione perché ha continuato a insegnare legalità come materia di vita. L’importante è che ciascuno, nel proprio ambito, faccia la sua parte: solo così la lezione di legalità del giudice Falcone da teorica diventerà pratica. Attiva e battagliera come pochi, sempre munita del suo iPad da cui ormai non riesce a staccarsi, per la professoressa Falcone gli attentati di Capaci e di via D’Amelio (dove morirono il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta), sono «le nostre Torri gemelle» perché 23 maggio e 19 luglio sono date che hanno sconvolto il Paese al pari degli attacchi terroristici che l’11 settembre sconvolsero gli Stati Uniti. Eppure solo pochi giorni fa, a Capaci, proprio lì dove la mafia è riuscita a creare l’inferno in terra, un consigliere comunale, ex maresciallo dei carabinieri, oggi in pensione, ha detto che la mafia non c’è e, se esiste, bisognerebbe trovarla. «Eccome se esiste - risponde Maria Falcone -. E dirlo a pochi giorni dalla trentesima commemorazione, è cosa inammissibile». Coltivare la memoria del giudice, suo fratello, è requisito essenziale per vedere trionfare la legalità? «In tutti questi anni non ho solo coltivato la sua memoria, ma ho portato avanti l’idea di Giovanni, ovvero che la mafia non si può sconfiggere solo grazie alla magistratura e alle forze dell’ordine: la si batte sul piano culturale, tagliando gli atteggiamenti che possono incidere negativamente sul futuro dei più giovani: la mafia si combatte da piccoli». Con la Fondazione da lei creata e di cui è presidente, porta le idee di suo fratello in tutto il mondo e non ha mai smesso di incontrare i giovani. Qual è la loro percezione dei fatti successi trent’anni fa? Tenere viva la memoria di suo fratello ha dato i frutti sperati? Ha notato cambiamenti nella società civile siciliana? «La percezione della voglia di cambiamento l’ho avuta già all’indomani della strage mafiosa. E sono stati i fiori, i disegni e le frasi lasciate sull’albero sotto la sua casa, in via Notarbartolo, che mi hanno fatto capire che il sacrificio di Giovanni, di Paolo Borsellino e di tutti i caduti per mafia sarebbe servito a tutti noi. Certo, la società non è risanata nella sua interezza ma non si possono negare i tanti passi in avanti compiuti». I giovani che incontra sono diversi rispetto a quelli di venti anni fa? «Potrà sembrare strano ma oggi noto un coinvolgimento e un interesse maggiori. Per loro Giovanni è un modello da seguire e quando racconto la sua storia ascoltano in silenzio. Anche durante i due anni di emergenza sanitaria, il mio legame con gli studenti non s’è mai interrotto, dialogando da remoto». Chi era suo fratello in privato prima di diventare Giovanni Falcone, il giudice eroe? «Uno sportivo, un ragazzo studioso e attento. Costruiva il suo futuro basandosi sulle sue sole forze e affinando le sue peculiarità. Scelse la carriera di magistrato perché questo era il desiderio di nostro padre Arturo, ma soprattutto perché credeva nella possibilità che quella professione, emblema della giustizia, eliminasse le diseguaglianze. E, comunque, qualsiasi strada avesse intrapreso, sono certa che avrebbe espresso al meglio tutte le sue potenzialità». Ha detto che era uno sportivo? «Sì, ha praticato canottaggio, nuoto e ginnastica artistica a livello agonistico. Quando si ruppe un braccio, cadendo dalle parallele, abbandonò lo sport: sapeva che non avrebbe più potuto dare il massimo». Utilizzando solo aggettivi, quali userebbe per descriverlo? «Userò quello del giudice Fernanda Contri, legata a lui da sincera amicizia: misurato. Giovanni non esagerava, rispettava uomini e istituzioni». Per lei cosa rappresenta il 23 maggio 1992? «Un momento doloroso della mia vita che quel giorno s’è cristallizzata. Da allora ho vissuto un vortice di emozioni personali contrastanti, rabbia, dolore, indignazione. Ma quel giorno in Italia, e soprattutto a Palermo, la rabbia è diventata pretesa di giustizia: è l’inizio della fine dell’indifferenza. Non abbiamo ancora vinto perché l’antimafia nella società necessita d’essere monitorata: la nostra forza sarà l’unità nella legalità». Dov’era quando si scatenò l’inferno a Capaci? «A casa, aspettavo mio fratello. Un’amica che aveva visto il telegiornale chiamò e parlò con mio marito. Ci dissero che avevano portato Giovanni al Civico e che era ancora vivo. Mi precipitai ma, quando arrivai, trovai Paolo (Borsellino, ndr) che mi disse che gli era morto tra le braccia quindici minuti prima. E da lì, per me, tutto è cambiato».