Ho scritto queste righe nel giorno del compleanno di Giovanni Falcone, il 18 maggio 2022: avrebbe compiuto 83 anni. Nella morte di qualcuno, oltre al dolore, c’è sempre qualcosa di masochistico in chi resta, il mio è pensare che a Falcone e Borsellino hanno scippato trent’anni di vita, di famiglia, di figli e di nipoti, di viaggi, di cose da fare. Trent’anni alle 17.58 di oggi. Ti volti e sembra ieri, un lampo, e invece quei trent’anni sono passati, mezza vita di un uomo, quasi una intera per un giovane cronista appena assunto che il 23 maggio 1992, in un pomeriggio appiccicoso, si trova davanti la faccia più brutta della sua terra. È il giorno che cambia tutto, il giorno in cui la Storia prende un’altra strada per non tornare più indietro, il giorno in cui appare finalmente chiaro (a molti, non a tutti) ciò che eravamo e ciò che, da lì in poi, saremmo diventati. È il prima e il dopo, il sabato indimenticabile e irripetibile (Borsellino sarebbe morto di domenica) in cui davanti allo squarcio in autostrada, in silenzio e increduli, come in un film muto, ci guardiamo dentro e ci chiediamo: ma è successo davvero? È il sabato in cui scopriamo che c’è un mondo oltre al nostro mondo, e che da quel momento avremo il dovere non di conviverci, più o meno consapevolmente, ma di combatterlo e batterlo. È il giorno della corsa disperata a Capaci dopo avere capito, al giornale, ascoltando lo scanner sulle frequenze della polizia, che c’era qualcosa che non andava, che era successo qualcosa di orribile, potente, qualcosa mai vista né sentita prima. Un’esplosione in una fabbrica, dicevano le prime voci. La mia macchina, una Golf, aveva pochi mesi di vita; lasciai il giornale assieme a Tony Gentile, il fotografo della famosa foto di Falcone e Borsellino che sorridono complici. Chissà se avevamo appresso i telefonini, non lo ricordo. L’autostrada era già chiusa, imboccammo le strade complicate e strettissime di fianco. Arrivammo che la macchina aveva le fiancate devastate. Forse fu quello il momento in cui capii, e la lezione mi sarebbe servita per i giorni che avrei vissuto, che le cose sono cose e che insomma i graffi sulla macchina nuova non sono poi la fine del mondo. Perché la fine del mondo, quella vera e irreparabile, era davanti ai nostri occhi, macerie e fumo e corpi bruciati dalle fiamme. Fummo tra i primi ad arrivare, prima di noi forse solo Felice Cavallaro, inviato del Corriere della Sera, Franco Lannino e Michele Naccari dell’agenzia StudioCamera, fra gli ultimi testimoni di un mondo che non c’è più, inghiottito dalle foto facili e tutte uguali dei cellulari. L’auto di Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dell’autista Giuseppe Costanza, era in mezzo all’autostrada, accartocciata, quasi sospesa sul cratere provocato dall’esplosivo. L’auto dei tre agenti di scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, il caposcorta, e Vito Schifani, era oltre il guardrail, fra gli ulivi, dalla parte del mare, scaraventata con una violenza, ci apparve subito chiaro, che non avrebbe potuto concedere alcuna speranza. Era come mettere piede in una terra sconosciuta, una sorta di allunaggio, la scoperta di un mondo sconosciuto e orribile. Ci sono, di quel pomeriggio, ricordi nitidissimi e ricordi sfuggiti via assieme agli anni. Uomini in divisa attorno al cratere, le ambulanze, i vigili del fuoco che cercano di tirare via dall’auto i corpi di Falcone e della moglie, i difficili collegamenti col giornale - sì, forse i cellulari li avevamo - per coordinarci, dirci cosa fare, i colleghi in giro fra gli ospedali, il faticosissimo ritorno al giornale, la notizia - «Falcone e la moglie sono morti in ospedale» - durante la riunione volante, il pezzo consegnato prima che l’orologio ci portasse al 24 maggio, il giorno che ci svegliammo e capimmo che il nostro mondo non c’era più, si era capovolto e non sarebbe stato mai più quello di prima.