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Crollo del viadotto Morandi, i sopravvissuti: "Visto l'asfalto aprirsi"

In aula i testimoni: "Rimasto appeso 4 ore con il collega morto"

Il momento del crollo del Ponte Morandi

In fondo all’aula ci sono i parenti di chi è morto per il crollo del ponte Morandi. Dal lato opposto sfila chi quel 14 agosto 2018 è sopravvissuto e racconta, tra sensi di colpa per chi non c'è più e dolore, come si vive da sopravvissuti. C'è chi ha visto «l'asfalto aprirsi», chi ha visto il tirante «sbriciolarsi» e chi ha urlato disperato incastrato nell’auto per farsi sentire dai soccorritori. Ma, soprattutto, c'è chi non riesce più a dormire la notte, chi ha paura di guidare sopra un viadotto, chi a Genova non è più tornato a bordo di una macchina. Dopo cinque mesi di questioni preliminari, il processo è entrato nel vivo con le testimonianze di chi quella mattina ha visto in diretta il ponte sbriciolarsi sotto una pioggia battente. Un racconto «difficilissimo da sentire e angosciante» per i familiari delle 43 vittime.

Gianluca Ardini è rimasto appeso per quattro ore dentro il furgone di lavoro accanto al cadavere del collega Luigi Matti Altadonna. Da quel giorno lotta col senso di colpa di essere rimasto vivo. «Ho sentito un rumore fortissimo e il mio collega urlare. Ho alzato gli occhi dal tablet - dice ai giudici - e ho visto l’asfalto sbriciolarsi. Sono rimasto appeso per quattro ore con accanto il mio collega morto fino a che non ci hanno estratti dalle lamiere». Gianluca mentre era incastrato tra le lamiere ha pensato alla figlia che sarebbe nata da lì a un mese. Fuori il papà di Luigi lo sostiene come ha sempre fatto da quel giorno. «Si porta dentro questo peso - dice Giuseppe Matti Altadonna - ma lui non ha nessuna colpa».

Sono 10 le persone sentite tra chi è precipitato nel crollo e chi lo ha visto collassare a pochi metri di distanza. «Dopo che siamo precipitati - ricordano Eugenio Babin e la moglie Natalja Yelina, la coppia che stava andando in vacanza in Costa Azzurra - cercavamo di gridare, chiedevamo aiuto. Abbiamo suonato il clacson finché non si è scaricata la batteria. Non vedevamo nessuno. Abbiamo pensato che non saremmo più usciti vivi». Dai racconti dei testimoni sono emersi non solo i momenti del crollo ma anche le conseguenze fisiche e mentali dei mesi successivi. C'è chi non dorme più la notte, chi ha paura di guidare, chi trema appena sente un rumore forte, chi non riesce più ad attraversare con l’auto un viadotto. Paure che non sono passate nemmeno dopo mesi di terapia e incontri con psicologi.

La testimonianza che più ha sconvolto i parenti delle vittime è stata quella di Gaspare Cavaleri, dipendente Amiu che lavorava nell’isola ecologica sotto il ponte. «Avevo iniziato il turno alle 5.30 del mattino - ricorda davanti ai giudici interrompendo più volte il racconto per il pianto - e già a quell'ora c'erano calcinacci sopra le auto. Quando poi ho finito il turno e ho posteggiato il furgone ho sentito un boato e ho iniziato a correre, sono finito contro un muro. Ho detto al mio collega 'siamo morti'. Mi sono girato e ho visto pezzi di ponte a 50 centimetri dalla mia schiena. Ho iniziato a chiamare i miei colleghi ma il loro telefono squillava a vuoto. Ho saputo dopo che erano morti».

Sono 58 le persone imputate tra ex dirigenti di Autostrade e Spea (la controllata che si occupava delle manutenzioni) e tecnici, ex e attuali dirigenti del ministero delle Infrastrutture e del provveditorato delle opere pubbliche. Le due società sono uscite dal processo patteggiando circa 30 milioni di euro. I racconti dei sopravvissuti andranno avanti fino a mercoledì.

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