Matteo “u siccu” aveva buoni “amici” in Calabria. Pronti a servirlo, proteggerlo e nasconderlo. Gente riservata capace di trovargli un rifugio sicuro, lontano dai clamori siciliani e dagli “sbirri” che gli davano la caccia.
La conferma è arrivata nell’aprile del 2018 con l’operazione “Anno Zero” condotta dalla procura di Palermo contro la vasta rete di fiancheggiatori dell’ex superlatitante. «Matteo era in Calabria ed è tornato» dice uno dei “picciotti” poi arrestato durante il blitz. Nelle conversazioni intercettate viene anche detto che Messina Denaro ha «incontrato cristiani».
Non sono parole al vento e Paolo Guido, il magistrato calabrese che guida gl’investigatori incaricati di trovare la “primula” di Castelvetrano, lo sa bene. Sette anni prima, infatti, un ex pizzaiolo di Cosenza, Luigi Paternuosto, lesto di lingua e di pistola, passato a collaborare con la giustizia, aveva raccontato all’ex procuratore aggiunto antimafia di Catanzaro, Giuseppe Borrelli (ora a Salerno) una strana storia.
Siamo nel maggio del 2011 e Paternuosto rivela che nel 2001, nel centro storico del capoluogo bruzio, vide all’esterno della pizzeria dove lavorava come copertura, «delle persone che non conoscevo e che riuscii a intravedere solo di profilo. Vidi questi due parlare con persone legate a Domenico Cicero (storico boss cosentino ergastolano n.d.r.) le quali, quando gli sconosciuti andarono via, mi confidarono che si trattava di due emissari di Totò Riina e Matteo Messina Denaro che, in considerazione dei buoni rapporti, erano venuti per comprare degli appartamenti. So che questo affare andò in porto ma non so indicare quali siano questi appartamenti». Il magistrato inquirente catanzarese inviò gli atti ai colleghi palermitani. E nel dicembre del 2013 i poliziotti delle squadre mobili di Palermo e Trapani eseguirono delle perquisizioni alle porte del capoluogo dell’Alta Calabria, a Mendicino, cercavano il mafioso siciliano tra le colline che guardano alla Sila ma non ebbero fortuna. “U siccu” non c’era.
I legami tra l’ala corleonese di Cosa Nostra e la ‘ndrangheta affondano le loro radici nel tempo. A Cosenza, nei primi anni 90, erano stati ospiti dei killer cosentini Dario e Nicola Notargiacomo, i boss di Brancaccio, Filippo e Giuseppe Graviano, il sicario (e poi pentito) Giuseppe Marchese e l’«azionista» Giovanni Drago, l’uomo che uccise in un sol colpo la madre, la sorella e la zia del “chimico” della mafia isolana Francesco Marino Mannoia.
Il collaboratore Paternuosto ha confessato che i rapporti vennero “rinverditi” durante la comune detenzione in un carcere del settentrione patita da Cicero con Totuccio “u curtu” (Riina). Il “capo dei capi” - secondo il collaboratore - «era stato visto poggiare un braccio sulla spalla di Cicero» in segno di considerazione e fiducia. A conferma del solido filo criminale che lega i corleonesi alla Calabria e poi giunta l’inchiesta bis avviata tre anni addietro dalla Dda di Reggio, guidata da Giovanni Bombardieri, sull’omicidio del sostituto procuratore generale della Cassazione, Antonino Scopelliti.
Tra i boss calabresi e siciliani indagati - a seguito delle dichiarazioni rese dal pentito catanese Maurizio Avola - figura pure Matteo Messina Denaro. Il padrino del Trapanese è inserito nell’indagine nella veste di componente della “cupola” che ordinò la eliminazione del magistrato avvenuta nell’agosto del 1991. A capire per primo che non si trattava di un delitto di ‘ndrangheta fu Giovanni Falcone: a Claudio Martelli, all’epoca ministro della Giustizia, il giudice siciliano, appena giunsero a Reggio, disse che la morte di Scopelliti riguardava la celebrazione in Cassazione del maxiprocesso di Palermo. Nino Scopellitti, infatti, avrebbe dovuto sostenere la pubblica accusa nel grado finale di giudizio.
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