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Con Flaiano e Pincio in un’estate romana. Anzi, marziana

Che bello che Tommaso Pincio abbia chiamato il suo nuovo libro “Diario di un’estate marziana” (Giulio Perrone Editore). Perché oltre all’indubbia riuscita estetica, questo titolo contiene, nell’evidente riferimento a “Un marziano a Roma” di Ennio Flaiano, una dichiarazione d’intenti. Ma si tratta di un saggio dedicato a Flaiano, di un romanzo, di un delicato journal intime? Con le opere di Pincio sarebbe sbagliato cercare una definizione. Del resto anche Franco Cordelli l’ha spiegato Bene: «I suoi saggi sono racconti, i suoi racconti sono squarci autobiografici, i suoi squarci autobiografici sono saggi morali».

Una cosa è certa, Pincio si guarda allo specchio e scrive ciò che vede: i suoi libri, i suoi autori prediletti (vedi, in questo caso, alla voce Ennio Flaiano), ma anche le strade che percorre ogni giorno, la sua città, le sue città, i suoi ricordi, certe passeggiate. Ecco, Pincio è uno di quegli autori che ha il vizio del tempo perduto: come se si potesse mettere ordine nel caos. È questo quello che prova a fare con i suoi libri: prova a prendersi. In fondo è come quel romanziere che «non sapeva come spiegare alla moglie che quando guardava fuori dalla finestra stava lavorando».

Già, tutto sommato è come con questo “Diario”: come fai a spiegare al lettore che quello che sta leggendo è un romanzo autobiografico, un saggio su Flaiano, le memorie di uno che ogni mattina si sveglia come un innocente che vuole confessare? Pincio ammette come col suo libro si inoltra a piccoli passi nel cuore di una bugia: «Non si racconta per dire il vero. Raccontiamo – e ricordiamo – per dare un senso ai fatti, per individuare un vizio, un errore, una direzione, il momento in cui le cose hanno preso una certa piega. Non è che un modo per spiegarci e giustificare ciò che siamo diventati». E come già era avvenuto nel precedente libro su Caravaggio, «Il dono di saper vivere» (2018), leggendo il quale non distingue più fra la storia del pittore di ieri e lo scrittore di oggi, così anche in questo “Diario” Pincio si accosta e si addentra come una spia, un infiltrato nella vita di Flaiano.

Lo specchio della scrittura suggerisce, tuttavia, a Pincio che sarebbe un peccato rinunciare a se stesso nel comporre un omaggio all’autore del «Tempo di uccidere». Sta al lettore distinguere, appunto nello specchio della scrittura, il riflesso di Flaiano da quello di Pincio – anche se non è essenziale farlo – per scoprire, insomma, se il “vincitore riluttante” sia Ennio o Tommaso, anche se d’altra parte per chi ha subìto l’io come una malattia le disfatte sono in fondo adorabili, nel «paradosso di vivere da stranieri in casa propria».

Come quando Pincio ci racconta, per esempio, dell’amore di Flaiano per l’estate e lo cita: «Non c’è che una stagione: l’estate. Tanto bella che le altre le girano attorno». Per poi concedersi una sua stessa confessione, aggiungendo che «l’estate è una disposizione dell’anima»: «È la stagione del malinconico che non vuole arrendersi alla propria natura e si ostina a credere nell’esistenza della felicità».

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