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La Crusca alla Cassazione: sì alle professioni al femminile, no allo "schwa"

La Suprema Corte di Cassazione e la “Cassazione” della lingua italiana: l’Accademia della Crusca. Al centro, un tema etico sempre più sentito in maniera trasversale e dilagante: l’uso del linguaggio di genere anzi, di una lingua “rispettosa della parità di genere”, o meglio delle “differenze di genere”, ormai non più solo “binarie”. Definizioni usate dalle due somme Istituzioni, dimostrando come il dibattito sia posizionato non sulla linea della “faziosità” o dell’estremismo - maschilista, femminista, non binario – e sia ben lungi dall’essere sterile o “superfluo”, se a occuparsene è il supremo organo di legittimità della giurisdizione italiana, mentre i pareri degli accademici della Crusca – come di altre istituzioni del settore - sull’argomento sono stati nel tempo innumerevoli e illuminanti. Integrando quindi una problematica che va ben oltre la grammatica e la sintassi, facendosi portatrice di istanze di parità, anzi di equilibrio sociale, il cui primo passo - certamente pacifico e dialogante, senza integralismi o dogmi, e senza "sopravvalutare " né "sottovalutare", come la Crusca ammonisce - è senz’altro il riconoscimento intellettuale delle differenze di genere, seguito quindi da quello linguistico, con le regole proprie di tale registro. Ma se l’obiettivo comune è quello di tendere a un’uguaglianza reale, linguistica e non solo, probabilmente la strada sarà più agevole, serena e condivisa.

L’occasione dunque è sorta alla luce del quesito sulla “scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari” posto all’Accademia della Crusca dal Comitato Pari Opportunità del Consiglio Direttivo della Corte di Cassazione, presieduta dal 1 marzo scorso da Margherita Cassano, la prima donna ad assumerne, con elezione all’unanimità del Csm, la carica di presidente dopo esserne stata vicepresidente dal 2020.

Crusca: una questione molto sentita e attuale"

"La questione -afferma l'Accademia - molto sentita e molto attuale, tocca la quotidianità di chi lavora nei settori del diritto, dell’amministrazione della giustizia, della burocrazia delle istituzioni pubbliche, e interessa tutti i parlanti attenti a un uso della lingua che sia rispettoso delle differenze di genere". Da evidenziare il passaggio in cui la Crusca sottolinea che “ovviamente va tenuta distinta la libertà della lingua comune nel suo impiego individuale, nella varietà degli stili e delle opinioni, dall’uso formalizzato da parte di organismi pubblici. Anche l’uso giuridico rientra in questa possibile regolamentazione che investe l’impiego della lingua da parte di istituzioni dello Stato, ben distinta da altre funzioni della comunicazione (familiare, scherzosa, artistica ecc.), alle quali occorre per contro garantire la massima libertà”.

In premessa la Crusca, facendo riferimento al modello introdotto da Alma Sabatini nel 1986, riporta "i principi tradizionalmente invocati per stabilire le regole o raccomandazioni per un uso della lingua rispettoso della parità di genere":

1) evitare in maniera assoluta il maschile singolare perché a torto considerato non marcato e da alcuni definito inclusivo o, meno correttamente, neutro (quindi, ad esempio, non sarebbe corretto dire "l'uomo" pensando di ricomprendere anche persone di altro genere)
2) evitare l’articolo determinativo prima dei cognomi femminili, perché genera un’asimmetria con quelli maschili (no, ad esempio, a "la Meloni")
3) accordare il genere degli aggettivi con quello dei nomi che sono in maggioranza o più vicini all’aggettivo (secondo questo principio: le penne e i quaderni sono belli, il quaderno e le penne sono belle)
4) usare il genere femminile per i titoli professionali che sono riferiti a donne (ministra, sindaca, rettrice... ).

Le professioni al femminile: niente esitazioni

Quest'ultimo richiamato dalla Crusca è proprio uno degli aspetti di maggiore rilevanza del parere, non tanto per la "novità" scientifica - l'Accademia si è sempre espressa in tal senso - ma perchè l'indicazione viene per la prima volta cristallizzata in riferimento alla necessità di usare la declinazione di genere in maniera "larga e senza esitazione" - dice la Crusca - nel linguaggio giuridico e negli atti pubblici che invece, attualmente sono improntati alla declinazione maschile a prescindere dal genere di chi ricopre la carica. Via libera quindi - ed è lo stesso parere a elencare i numerosissimi esempi - a ministra, sindaca, questora, prefetta, avvocata, pubblica ministera, sostituta procuratrice, uditrice, capitana, colonnella, brigadiera, segretaria generale, architetta, medica, chirurga e così via. Importante però è evidenziare come la carica vada mantenuta al maschile se ci si riferisce in astratto all’organo o alla funzione, indipendentemente dalla persona che in concreto lo ricopra o la rivesta. Meglio non usare invece l'articolo determinativo davanti al cognome femminile, con i suggerimenti per migliorare l'identificazione delle persone citate nei testi (ad esempio indicare nome e cognome).

No all'asterisco o schwa nel linguaggio giuridico

Di grande rilievo la pronuncia relativa all'uso nella lingua giuridica di asterisco o schwa, la "e" rovesciata impiegata per marcare il desiderio di ricomprendere linguisticamente anche chi non si riconosce nell'identità maschile o femminile. Quindi per la Crusca è da escludere nella lingua giuridica "l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico («Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…»). Lo stesso vale per lo scevà o schwa, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue, non presente in italiano, ma utilizzata in alcuni dialetti della Penisola. La lingua giuridica - ricorda la Crusca - non è sede adatta per sperimentazioni innovative minoritarie che porterebbero alla disomogeneità e all’idioletto. In una lingua come l’italiano, che ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, lo strumento migliore per cui si sentano rappresentati tutti i generi e gli orientamenti continua a essere il maschile plurale non marcato, purché si abbia la consapevolezza di quello che effettivamente è: un modo di includere e non di prevaricare".

No a "duplicazioni retoriche", ecco quando il maschile inclusivo è "accettabile"

Importante il passaggio riferito all'uso delle formule estese (studenti e sudentesse, lavoratori e lavoratrici e così via) volte ad evitare di ricomprendere sempre e comunque il genere femminile nel maschile (con esiti talvolta paradossali: un gruppo femminile con una sola presenza maschile, ad esempio, andrebbe qualificato al maschile: i ragazzi, gli studenti, i lavoratori.... ). Una formula che (sulla scia di "signore e signori", o anche dell'ecumenico "fratelli e sorelle") si va sempre più diffondendo nel linguaggio comune, parlato, ma anche scritto, come dimostrano anche in taluni casi i comunicati stampa istituzionali (ad esempio del Ministero dell'Istruzione e del Merito).

A tal proposito, l'Accademia, sempre in riferimento agli atti giuridici, invita a evitare le "reduplicazioni retoriche": "In base al principio della concisione ai quali si ispira la revisione generale attualmente in corso del linguaggio giuridico, sono da limitare il più possibile interventi che implichino riferimento raddoppiato ai due generi, espediente pur largamente utilizzabile in contesti di pubblica oratoria e di valenza retorica. Intendiamo riferirci al tipo “lavoratori e lavoratrici, cittadini e cittadine, impiegati e impiegate” e simili. Per evitare questo allungamento della frase si possono scegliere altre forme neutre o generiche, per esempio sostituendo persona a uomo, il personale a i dipendenti ecc. Quando questo non sia possibile, il maschile plurale “inclusivo” (a differenza del singolare) risulta comunque accettabile".

Dunque, in una sentenza meglio usare formule neutre o il maschile plurale (non singolare) inclusivo, invece che formule "duplicate" che sono però "largamente utilizzabili in contesti di pubblica oratoria e di valenza retorica". Un contesto di oratoria pubblica si ritrova certamente nei messaggi istituzionali (il Capo dello Sato Sergio Mattarella in occasione della commemorazione per le vittime innocenti delle mafie del 21 marzo si è rivolto ai giovani con un "Care ragazze e cari ragazzi"), ma si potrebbe ritenere affine all'oratoria pubblica anche ad esempio un convegno, un dibattito, o il linguaggio giornalistico, o anche addirittura una lezione scolastica, dove quindi la formula estesa (studentesse e studenti) sarebbe "largamente utilizzabile", anche al fine di trasmettere una nuova sensibilità.

In ogni caso, come sembra evidente, nessun divieto e nessun obbligo, nessun errore "blu", né in un senso nè nell'altro, specie al di fuori dei contesti giuridici. Nella ricerca di espedienti linguistici corretti e adeguati al contesto, dunque, probabilmente può guidare il contemperamento dei diversi interessi, la sensibilità, e quell'obiettivo comune di raggiungimento della auspicata parità e di una migliore rappresentatività dei diversi generi.

Ecco il parere: https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/l-accademia-risponde-a-un-quesito-sulla-parit-di-genere-negli-atti-giudiziari-posto-dal-comitato-par/31174

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