Era un accademico di statura assoluta, uno studioso apprezzato in tutto il mondo, docente cosmopolita, brillante conferenziere e autore di bestseller, ma lui si sentiva, anzitutto, un insegnante, un maestro. E per quanto la sua vita fosse un vortice d’impegni internazionali, la dimensione dell’insegnamento, della trasmissione più semplice – e miracolosa – della conoscenza era quella che considerava la sua vera missione, il suo primo obiettivo. Per anni, ogni lunedì ha letto ai suoi studenti – quelli che affollavano le aule delle sue lezioni nella “sua” Università della Calabria – una poesia, commentandola con loro. Fuori da qualsiasi programma che non fosse quello, gigantesco, di un intellettuale e un educatore che sente come compito (e responsabilità) fondamentale scatenare la passione per la conoscenza, svelare la bellezza della parola, far conoscere i classici di ogni latitudine per quello che sono, «opere che non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire», secondo la bella definizione di Italo Calvino. Quella poesia del lunedì era il suo patto con gli studenti, e stava fuori dalla logica e dalla burocrazia dei programmi, voleva essere un seme della “magnifica eresia” che deve animare tutti noi. Il contrario della “scuola azienda” dominata dai principi della produttività e dalle logiche di mercato. Che poi era il senso del suo amatissimo «L’utilità dell’inutile», il magnifico paradosso con cui respingeva ogni tentativo di fare della conoscenza, e della scuola, ancelle della logica utilitaristica degli affari, del mercato globale. L’Umanesimo allora diventava una militanza di base da essere umano interessato – prima che a qualsiasi “produttività” – alla verità e alla bellezza come nutrimenti per individui più felici e società più giuste. Ci mancherai, maestro, ma ti risentiremo in ogni parola capace di accendere una luce nel buio.