Il corpo luminoso degli dei, il corpo colossale degli eroi, il corpo perfetto degli atleti, il corpo “difettoso” delle donne. Il corpo degli esseri umani caduco, effimero, vulnerabile, segnato dal destino della vecchiaia e della morte, soggetto agli innumerevoli agguati della malattia. Il corpo divino altrettanto materiale eppure immateriale, irreale. Il corpo confine e epicentro. Il corpo esplorato, o immaginato, dalla medicina e il corpo abbellito dalla cosmesi. Il corpo infinitamente manipolato, dalla fasciatura dei neonati al trattamento dei cadaveri. Il corpo come costruzione culturale, sempre, pure se è la nostra prima realtà fisica, la nostra prima e immediata interfaccia col mondo, che crea e plasma ogni nostra percezione e reazione e approccio.
«Corpo», appena uscito per Inschibboleth nella collana “Le parole degli antichi” diretta da Mario Lentano, il bel libro della professoressa, siracusana ma messinese d’adozione, Anna Maria Urso, ordinaria di Filologia classica a Messina, raffinata studiosa di storia della medicina e di drammaturgia antica, è un catalogo di cataloghi, una narrazione calviniana del corpo per i Greci e i Romani, costruito per attributi e angoli d’osservazione, declinato per scoperte o per pregiudizi, oscurato da tabù o rivelato dallo sguardo del fisiologo o del poeta.
Ma come comincia, il corpo degli antichi? «In principio era il seme», persino femminile, per quanto di qualità sempre inferiore a quello maschile – come qualunque cosa che riguardasse le donne.
Al netto d’una comune creazione ad opera ovviamente divina, con fanghi o argille che dovevano certificarne l’intrinseca fragilità, ma pure il prodigio artigiano, una delle cose su cui più gli antichi si sono arrovellati, non disponendo d’alcuna conoscenza di strutture e meccanismi – in mondi in cui un tabù fortissimo impediva di sezionare i cadaveri, e dunque di studiare anatomie e funzioni – era ovviamente la riproduzione, il concepimento e l’embriologia: i più occulti segreti della “scatola nera”.
La prof. Urso, con la sua penna rigorosa ma sempre illuminata dall’ironia e sensibile alla grande bellezza di talune fonti, ci conduce in giro per l’antichità, tra idee bizzarre, come l’utero che vaga per il corpo, attratto dagli odori, infinitamente destabilizzante (l’isteria, archetipo del femminile, nasce, anche etimologicamente, da qui); teorie macchinose e persistenti (i quattro umori); osservazioni di spettacolare finezza, tanto che alcune definizioni sono ancora oggi in uso nel lessico medico (il «rumore del cuoio» o «dell’aceto» per i polmoni malati); una galleria di personaggi del mito o della storia, dallo smisurato Eracle (che sta conoscendo un’imprevedibile popolarità nel mondo del culturismo) alla bellissima Elena, da Frine, il cui seno nudo in tribunale risulta più convincente d’una perorazione, ad Antioco I «malato d’amore». E, costruendo e decostruendo il corpo, sano e malato, attraverso una capillare conoscenza delle fonti, erudita ma brillante, Urso – che domani pomeriggio alle 18 presenterà il libro al Feltrinelli Point di Messina – ci indica in pari tempo la progressiva messa a punto di strumenti, marca le rivoluzioni epistemologiche e i bruschi dietrofront, tratteggia la bellezza del rigore di Ippocrate e della teleologia d’Aristotele, i paradigmi degli opposti o degli analoghi, gli atomi che s’aggregano o lo pneuma che fluisce.
Si delinea con chiarezza il mondo antico con la sua supremazia del corpo – di cui l’anima non è che una parte, e per cui la “vera” vita è su questa terra, oltre la quale c’è solo un comune destino di ombre sbiadite e afflitte – prima che il Cristianesimo introduca tutt’altro rapporto con l’invisibile (ma alcune cose dureranno ancora, fino alla modernità).
Soprattutto, ed è un tema che in questi giorni risuona fortemente nella disputa attorno al patriarcato come sistema profondo e costitutivo a cui apparteniamo, anche senza saperlo o volerlo, rendendo questo libro prezioso per comprendere le origini di durevoli pregiudizi e stereotipi di genere, Urso tratteggia le basi della discriminazione della donna, attraverso le molteplici teorie che, per quanto discordi su tutto il resto, sono assolutamente concordi nel “certificare” la naturale, “biologica” inferiorità femminile.
I luminosi Greci, padri e fondatori del pensiero occidentale, i severi Romani, architetti del diritto, erano ferocemente misogini: «Figlie di un dio minore» titola Urso il denso capitolo dedicato alla concezione «profondamente dispregiativa» che della donna aveva Aristotele, che con la «lente deformante» del pregiudizio legge «il femminile come difetto del maschile», categorizza la donna come «maschio menomato» e «prodigio», ma come sono prodigi, mostruosi, i giganti con due teste; la donna come errore, come deviazione, creatura contro natura ma che – guarda un po’ – è indispensabile alla natura stessa, perché capace di generare (e questo è il punto di caduta d’ogni maschilismo, e anche la causa della necessità, in ogni epoca, di acquisire e mantenere il massimo controllo sul corpo “imperfetto” e “pericoloso”, ma perché potente, della donna). «Viene a configurarsi – scrive Urso – l’immagine di un corpo femminile difettoso… del quale anche le specifiche funzioni fisiologiche sono ricondotte a uno scarto patologico dal corpo maschile».
La donna che non deve nemmeno imbellettarsi troppo, perché fuori dal “naturale” la bellezza partecipa del tranello (un gustoso capitolo è dedicato a forme e riti della bellezza), e ci riporta nel campo semantico della scaltrezza, dell’inganno. La donna che deve coprirsi e isolarsi dallo spazio pubblico (come accade in tanti regimi del mondo).
Il corpo e il corpo della donna è ancora, oggi, il terreno della lotta. Le radici del pregiudizio di genere sono, come si vede, molto antiche: conoscerle aiuta a mettere in prospettiva il tema del patriarcato e della sua sopravvivenza. Ben vengano dunque libri così dotti eppure così limpidi, in cui «le parole degli antichi» ci aiutano a conoscere il passato, capire il presente, immaginare il futuro.
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