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Bimba morta di stenti, la madre Alessia Pifferi "capace di intendere e volere"

Era capace di intendere e di volere Alessia Pifferi, la 38enne che nel luglio 2022 ha lasciato morire di stenti la figlia Diana di meno di un anno e mezzo, abbandonandola da sola in casa per sei giorni. Lo ha stabilito la perizia psichiatrica firmata dallo psichiatra forense Elvezio Pirfo, depositata oggi e disposta dalla Corte d’Assise di Milano nel processo per omicidio volontario aggravato.  Il perito, nominato dalla Corte presieduta da Ilio Mannucci Pacini, chiarisce che «non essendo dimostrabile né una Disabilità Intellettiva né un Disturbo Psichiatrico Maggiore né un Grave Disturbo di Personalità, è possibile affermare che Alessia Pifferi al momento dei fatti per i quali è imputata era capace di intendere e di volere».

E, si legge ancora nelle quasi 130 pagine di perizia, «vista la mantenuta capacità di intendere e di volere non è possibile formulare una prognosi di pericolosità sociale correlata ad infermità mentale». In più, proprio per «l'assenza di patologie psichiatriche ma soprattutto in presenza di un funzionamento cognitivo integro e di una buona capacità di comprensione della vicenda giudiziaria che la riguarda, sia in termini di disvalore degli atti compiuti sia dello sviluppo della vicenda processuale», la donna «è capace di stare in giudizio».

Il fatto che sia stata giudicata dal perito capace di intendere e volere comporta che, se la Corte seguirà queste valutazioni, Pifferi potrebbe essere condannata, come pena massima, all’ergastolo, anche perché l’omicidio contestato ha più aggravanti, tra cui la premeditazione.

"La spettacolarizzazione del caso non ha influito sulla perizia"

La «spettacolarizzazione mediatica subita da questa drammatica e tristissima vicenda avrebbe potuto costituire un’indiretta pressione psicologica sul Perito e sui Consulenti di Parte», ma «tale rischio non si è realizzato perché l’attività peritale si è svolta in maniera professionalmente serena grazie all’atteggiamento di collaborazione tenuto dai Consulenti di Parte nei confronti dello scrivente, pur nelle differenze delle proprie valutazioni cliniche e forensi, permettendo così di realizzare l'osservazione peritale nell’assoluta normalità "tecnica"».

Lo scrive lo psichiatra forense Elvezio Pirfo nella perizia depositata oggi sul caso di Alessia Pifferi. Il pericolo di "pressione» sui periti avrebbe potuto esistere, si legge, "soprattutto perché in questo tipo di accadimenti il rischio è che si crei un circolo vizioso tra il tipo di reato e le modalità con cui è stato commesso da una parte e un’automatica o psichiatrizzazione delle motivazioni o valutazione moralistica dall’altra». Rischio evitato, conclude il perito.

"Pifferi ha preferito i suoi desideri alla figlia"

«Al momento dei fatti - scrive Elvezio Pirfo - ha tutelato i suoi desideri di donna rispetto ai doveri di accudimento materno verso la piccola Diana e ha anche adottato "un’intelligenza di condotta" viste le motivazioni diverse delle proprie scelte date a persone diverse».

Nelle conclusioni della perizia si legge che la 38enne «ha vissuto il proprio contesto familiare e sociale di appartenenza come affettivamente deprivante e tale da indurre una visione del mondo ed uno stile di vita caratterizzati da un’immagine di sé come ragazza e poi donna dipendente dagli altri (ed in particolare dagli uomini) per condurre la propria esistenza». E ha «sviluppato di conseguenza anche un funzionamento di personalità caratterizzato da alessitimia, incapacità cioè di esprimere emozioni e provare empatia verso gli altri». Detto questo, però, il perito chiarisce che Pifferi «ha un funzionamento mentale adeguato e coerente al proprio grado di acculturazione e di esperienza esistenziale e non è portatrice di Disabilità Intellettiva».

E ciò emerge anche «dalla visione degli interrogatori videoregistrati», come ha sempre sostenuto il pm De Tommasi, «e cioè che le modalità di interloquire, l'atteggiamento mentale, le posture, i contenuti principali, sono del tutto sovrapponibili a quelli emersi nei colloqui peritali, così permettendo di affermare che nulla di quanto osservato dal perito possa essere connesso a condizionamenti dovuti alla detenzione (che pure potrebbe costituire un problema molto significativo per una persona alla sua prima esperienza in tal senso) o alla terapia farmacologica in atto». Emerge da parte sua «una 'resistenza alla faticà che questi contesti possono comportare». Si potrebbe dire che ha «una resilienza, una capacità cioè di sopportare gli eventi avversi, superiore a quanto ci si possa aspettare in una persona segnata da un’esistenza complessa e per certi versi infelice». Tutto accompagnato da «precisione delle risposte e integrità della memoria».

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