Oltre 13 mila attività, con picchi nelle città metropolitane di Palermo e Catania e un’incidenza che sfiora il 9% sul totale nazionale: sono le imprese siciliane in odor di mafia, o comunque a forte rischio infiltrazione da parte della criminalità organizzata, secondo i dati pubblicati dalla Cgia di Mestre, l’associazione degli artigiani. Lo studio ha respiro nazionale e fotografa le mafie come quarta industria del Paese con 40 miliardi l’anno (2 punti di pil); dai dati appare chiaro che il business si sta spostando sempre più al centro-nord, soprattutto per il riciclaggio. Tornando in Sicilia, più nel dettaglio, si tratta di 13.236 aziende, di cui ben 4.016 nella provincia di Palermo, che entra così nei primi dieci territori del Paese in questa speciale classifica, al sesto posto dopo Napoli (18.500 unità), Roma (16.700), Milano (15.650), Caserta (5.873) e Brescia (4.043). Poco più in là si trova la zona etnea, al nono posto con 3.291 imprese, mentre il Trapanese si piazza ventesimo a quota 1.534, ma più o meno con lo stesso rapporto sul totale del tessuto imprenditoriale locale registrato a Palermo e Catania, pari a circa il 4%. Poi spunta la provincia di Messina, ventiquattresima con 1.327 aziende e un tasso del 3%, più staccate Agrigento, trentanovesima con 954 potenziali attività orbitanti attorno a Cosa nostra, Ragusa, quarantesima con 885, Siracusa, quarantunesima con 863, e Caltanissetta, quarantacinquesima con 790. Ultima in graduatoria, perlomeno dentro i confini isolani, Enna, con 366 esercizi. Il ranking, spiega l’Ufficio studi della Cgia, è stato elaborato «in virtù dei dati in possesso dell’Unità di Informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia, struttura che, per legge, riceve ogni anno dagli intermediari finanziari centinaia di migliaia di segnalazioni di operazioni finanziarie sospette». Seguendo questo solco, «è stato possibile mappare il numero delle imprese potenzialmente contigue a contesti di criminalità organizzata, incrociando anche gli scambi informativi acquisiti dalla Dna e dall’autorità giudiziaria». Tra le attività criminali più remunerative per le mafie, accanto ai principali business come il narcotraffico, il traffico d’armi, lo smaltimento illegale dei rifiuti, gli appalti pubblici, le scommesse clandestine, l’usura, il contrabbando di sigarette e la prostituzione, c’è anche quella delle estorsioni, che colpisce quasi esclusivamente il tessuto imprenditoriale. Un fenomeno, quest’ultimo, che la Cgia correla con le denunce di pizzo da parte delle aziende in un rapporto direttamente proporzionale, perché in quei territori «dove il numero di denunce per estorsione è molto alto, la probabilità che vi sia una presenza radicata e diffusa di una o più organizzazioni di stampo mafioso è altrettanto elevata». Una proporzione che però sembra non valere per le province piazzate nella top venti della classifica delle imprese in odor di mafia. In un altro ranking, relativo alla quantità di segnalazioni di pizzo registrate nell’ultimo decennio dall’autorità giudiziaria, i territori di Palermo e Catania si trovano infatti, rispettivamente, al quarantacinquesimo e ottantaquattresimo posto, mentre Trapani è quarantottesima. Ma va anche ricordato che le tre province, rispetto al 2013, presentano rialzi nella quantità di denunce pari all’81%, al 12% e al 79%. Certo, si tratta di livelli lontanissimi da quelli fotografati nel Nordest, dove si arriva a quota +360%, ma di incrementi comunque si tratta, come quelli rilevati negli altri territori siciliani: Messina +39%, Agrigento +87%, Caltanissetta +45%, Ragusa + 14% e Siracusa +4,7%. Unica eccezione, Enna, in calo del 31%, mentre l’Isola, nel complesso (e sempre nel decennio) segna un aumento di denunce del 37%, un’asticella al di sotto della media nazionale, pari a +66%.