La presidente del Consiglio Giorgia Meloni "segue con costante attenzione la complessa vicenda di Cecilia Sala fin dal giorno del fermo, il 19 dicembre. E si tiene in stretto collegamento con il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e con il sottosegretario Alfredo Mantovano, per riportare a casa al più presto la giornalista italiana. D’accordo con i suoi genitori, tale obiettivo viene perseguito attivando tutte le possibili interlocuzioni e con la necessaria cautela, che si auspica continui a essere osservata anche dai media italiani" si legge in una nota di Palazzo Chigi.
«Una cosa buona dell’Italia è che non lascia mai soli i suoi cittadini. Altri Paesi hanno altre logiche. Io so che l’Italia non lascerà nemmeno Cecilia": afferma il direttore di Chora Media, Mario Calabresi, in un’intervista al Corriere della Sera sull'incarcerazione in Iran della giornalista Cecilia Sala.
«Dalla mattina di giovedì, da quando abbiamo perso le sue tracce, ci siamo uniti tutti con un unico obiettivo: portare Cecilia a casa al più presto», ha sottolineato Calabresi. «Questo era un viaggio a cui Cecilia teneva molto. Era tanto tempo che aveva chiesto il visto», ha spiegato il direttore di Chora Media. Sala è «scrupolosa, seria, che studia», ha assicurato, «erano già uscite tre puntate della serie 'Stories', il podcast che conduce per Chora.
Poi, giovedì, la nostra collega Francesca Milano mi ha chiamato e mi ha detto "non è arrivata la registrazione di Sala"». «Siamo in assenza di un’accusa formalizzata e quindi, inizialmente, la speranza era che questa cosa si potesse risolvere in fretta, motivo per cui siamo rimasti una settimana in silenzio», ha aggiunto, «negli anni ho visto diverse storie di questo tipo. Quando ero direttore de La Stampa, il mio giornalista Domenico Quirico è stato rapito in Siria».
«A Cecilia Sala idealmente dico di tenere duro come ho fatto io per 45 giorni: nel carcere di Evin a noi stranieri fisicamente non torcono un capello, ma mentalmente ti provano molto» spiega Alessia Piperno in un’intervista alla Stampa, la donna è stata rinchiusa nella prigione iraniana di Evin per 45 giorni.
«So cosa vuol dire il terrore di stare in una cella da soli. Abbraccio i suoi genitori - prosegue -, immagino il loro dolore che è come quello che hanno provato i miei».
Sul Corriere della Sera la donna racconta come passava le giornate in carcere. "Guardando il soffitto. Sono finita nel reparto 209, dove non hai accesso a nulla, nemmeno a un libro - dice - . È il braccio delle prigioniere politiche, dove si trova Narges Mohammadi. Ci sono altri luoghi, come il 2 A, che dicono essere un pò più tranquilli. A volte non davano l’acqua».
«Contro di noi almeno non alzavano le mani, non ci toccavano, anche se non ci risparmiavano le torture psicologiche - prosegue -. Una volta mi hanno detto che era morta mia madre, un’altra che dovevo rimanere lì per dieci giorni. A differenza di Sala mi era stato concesso di sentire la famiglia solo due settimane dopo». A Repubblica Piperno spiega le condizioni di vita dentro il penitenziario.
"Non ci sono letti, dormi per terra in mezzo alle blatte, ai capelli e alle lacrime. C'è costantemente freddo perché non ti danno le coperte quando le chiedi - racconta -. Ricordo quelle pareti bianche e una minuscola grata in alto dalla quale non vedevi il cielo. Per noi c'erano solo dieci minuti di aria per due volte a settimana». Infine sul Messaggero racconta come lei venne imprigionata con due amici conosciuti all’ostello. " Luis Arnaud, un francese, è tornato a casa solamente lo scorso giugno dopo un anno e 9 mesi. Era stato condannato a 5 anni, io a 10. Anche lui come me è rimasto in contatto con i compagni di cella - spiega -. Uscire da un’esperienza del genere non è facile, ti segna per sempre».
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